Måneskin alla prova del nove: “Teatro d’ira”, la recensione dell’album
È il duemilaventuno e il rock non é morto. Ma, ci perdonerete, non è neanche stato portato alla ribalta dai Måneskin come qualcuno vorrebbe farci credere. Altrimenti i The Beatles non sarebbero The Beatles ed Enrico Ruggeri non avrebbe vinto il Festival Sanremo con una brano dalle tinte rock all’incirca trent’anni fa, giusto per buttare nella mischia due esempi un tantino virtuosi. E già, i Måneskin non sono stati i primi – e si spera neanche gli ultimi – a trionfare sul palco dell’Ariston con un sound non omologato e non convenzionale, almeno per i canonici standard di riferimento.
Ai Måneskin, però, rivolgiamo un sincero ringraziamento per aver tenuto alto lo scettro del rock, per aver fatto ascoltare il suono di una Stratocaster a mia nonna, per aver riportato in scena I CCCP con Manuel Agnelli. Insomma, grazie di tutto. Ora veniamo alla sostanza e cioè al nuovo album, Teatro d’Ira.
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L’uscita del disco, scritto nel corso degli ultimi due anni, è stata preceduta dal singolo “Vent’anni“. Inutile specificare le numerose aspettative che ha attratto su di sé, soprattutto negli ultimi mesi dove la band è stata particolarmente esposta a livello massmediatico. La sua pubblicazione, così vicina alla vittoria sanremese, inoltre, ha contribuito a focalizzare una sempre maggiore attenzione della stampa verso i ragazzi romani, rischiando però di minare l’obiettività di qualsiasi giudizio. Considerando il clamore mediatico che ha preceduto la release, la tendenza é adesso quella di considerare “Teatro d’ira” come qualcosa che “spacca” a priori.
E quindi eccoci qua, a scriverne dopo tre ascolti. Possiamo, in prima istanza, confermare la teoria anticipatoria di qualsiasi giudizio aprioristico: l’album spacca. Senza troppi giri di parole. I Måneskin si sono liberati delle sovrastrutture produttive che hanno caratterizzato “Il Ballo Della Vita”, abbracciando un rock più scarno, con la chitarra di Thomas Raggi come protagonista (Thomas Raggi che, da chitarrista modesto, si é trasformato in un musicista interessante con un sound distintivo).
La parte strumentale é estremamente intelligente e calibrata. Non c’é assolutamente nulla di innovativo in quello che fanno I Måneskin, ma le diverse influenze sono mescolate in modo elegante e ben amalgamato, tanto che è difficile accorgersene. Nella fatica dei Måneskin si può sentire distintamente l’influenza degli Afterhours, sia nei testi crudi che nella schietta distorsione dei riff. Si percepisce chiaramente la West Coast californiana di metà anni Novanta e si sente Caparezza che fa da mentore nelle parti “rappate” e crossover. Le numerose influenze ben amalgamate rendono “Teatro d’Ira” un album vario musicalmente e universalmente piacevole, per niente pesante. Una produzione che può essere apprezzata da noi tanto quanto dai nonni, coerentemente con la performance di Sanremo, insomma.
“Coraline” é probabilmente il fiore all’occhiello dell’album: la musica si costruisce in crescendo, che si sviluppa da una lunga introduzione senza batteria. Il testo é profondo e maturo, la linea melodica é complessa ma orecchiabile. Il punto critico di Teatro d’ira sono i testi: non filtrati, centrati su tematiche ripetitive ( e forse un po’ superficiali), caratterizzati da discutibili poeticismi come “voi giallo di siga tra le dita io con la siga camminando”, possono piacere immensamente o risultare orribilmente pesanti.
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Certo, l’album é un urlo di rabbia lanciato da ventenni e non desidera essere nient’altro, quindi va bene così. Per ora. Il linea di massima, sorvolando sui paragoni con i Led Zeppelin o con i Rolling Stones che, tutt’al più, possono strappare un sorriso, non eleviamo i Måneskin a ereditieri del Plettro del Destino e predestinati salvatori del rock. Teatro d’Ira é un lavoro riuscito, interessante e promettente.
Fare rock non é difficile, ma fare un rock abbastanza commerciale da poter vincere Sanremo pur rimanendo fedeli al genere é un’impresa abbastanza ardua. Quindi bravi ragazzi, e grazie: siete la band del liceo che ce l’ha fatta, siete un po’ anche il nostro sogno che si realizza.
Di Marta Scamozzi