Malosti: in “Lazarus” c’è il testamento di Bowie [L’intervista]
Ci siamo.
Dopo mesi di attesa e una prima serie di repliche “pilota” in quel di Cesena lo scorso marzo, è finalmente partita la tournée nazionale di uno degli spettacoli più attesi dell’anno. Stiamo parlando di “Lazarus”, che da oggi al 23 aprile sarà in cartellone al Teatro Argentina di Roma, dove le prenotazioni on line hanno già quasi portato a un completo sold out. Tratto dalla sorprendente opera rock scritta da David Bowie insieme al drammaturgo irlandese Enda Walsh poco prima della sua scomparsa nel 2016, il lavoro diretto da Valter Malosti beneficia dell’interpretazione nel ruolo principale del migrante interstellare Thomas Jerome Newton dell’amatissimo frontman degli Afterhours Manuel Agnelli, che sarà accompagnato, tra gli altri, da Casadilego, Michela Lucenti e Dario Battaglia, nonché da una live band composta da sette elementi che suonerà alcune delle canzoni più celebri del genio di Brixton.
Non potevamo lasciarci sfuggire l’occasione di parlarne un po’ con lo stesso Malosti, direttore della Emilia Romagna Teatro Fondazione/ Teatro Nazionale, attore, regista e produttore, nonché vincitore di numerosi premi nazionali ed internazionali. Ecco cosa ci ha raccontato a poche ore dalla prima alzata di sipario.
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Da dove nasce l’idea di portare in scena “Lazarus” e qual è il suo legame con David Bowie?
Il progetto di portarlo in Italia è nato prima ancora che l’opera venisse rappresentata negli Stati Uniti. Saputo della sua esistenza, mi sono subito attivato per ottenerne i diritti e non è stato facile, visto che a quei tempi, nel 2015, non è che avessi dietro chissà che realtà, ero un indipendente. Sicuramente sono stato fortunato per il fatto di avere una conoscenza diretta con il suo bravissimo coautore, Enda Walsh, uno scrittore magnifico che dalle nostre parti non è ancora conosciuto come si deve. Per quanto riguarda il mio legame con Bowie, posso dire, innanzitutto, che insieme a Carmelo Bene e a Demetrio Stratos, occupa un posto di riguardo nel mio cuore. Direi che loro tre hanno incarnato una sorta di “trimurti” nella mia adolescenza e nella mia giovinezza. A legarli, per come la vedo io, è la natura straordinaria della loro voce. La voce di Bowie, se ci si pensa, è una voce estremamente teatrale e più di una volta nel corso di alcune interviste ha detto di considerarsi alla stregua di un attore che canta, più che un cantante. La sua voce è meravigliosa, carica di mistero. Inoltre non bisogna neanche dimenticare che più di una volta Bowie ha dichiarato che il suo sogno più grande tra i diciassette e i diciannove anni era stato quello di scrivere un musical stile Broadway. Insomma, non potevo resistere alla tentazione di cimentarmi in questa impresa.
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Come si mette in scena un’opera del genere?
Beh, non è facile rispondere… Date le considerazioni che ho fatto prima, direi che innanzitutto occorre creare un po’ di distacco emotivo verso un artista che si è amato così tanto come è capitato a me con Bowie. Poi direi che mi sono lasciato guidare molto dal testo che è di una qualità assai elevata, perché Walsh, come ho già sottolineato, è uno scrittore di teatro magnifico, dotato di una lingua bellissima, “turgida”, che aiuta molto quando devi immaginare di renderla su un palcoscenico.
Ci racconta chi è per lei Thomas Jerome Newton, il protagonista dello spettacolo, e in che modo ha costruito il personaggio insieme a Manuel Agnelli?
Comincio dalla seconda parte della domanda. “Lazarus” è teatro musicale, la musica è un suo aspetto preponderante rispetto alle altre caratteristiche, per cui mi è sembrato naturale mettermi subito alla ricerca di un cantante piuttosto che di un attore. E Manuel, sono sincero, è stata la prima persona alla quale ho pensato, perché la sua tessitura vocale, il suo naturale “graffio” ferito mi sembrava perfetto dar voce al mio Newton come lo avevo immaginato. E poi entrambi, chi in un modo, chi in un altro, ci consideriamo “salvati” dalla musica, per cui… Sono molto contento che sia nata questa nostra collaborazione, anche perché credo che Manuel abbia dimostrato di essere, oltre che un eccellente musicista, anche un buon attore, concreto, forte, incisivo.
Se dovessi invece definire il mio Newton, partirei innanzitutto dal sottolineare un aspetto, quello cioè di aver voluto mantenere quanto più nascosta possibile la sua natura aliena. È molto avvicinabile, secondo me, come figura, all’uomo. E il fatto che sia un migrante interstellare, considerando anche la storia che vive, mi ha, ci ha, molto fatto riflettere anche sul migrantismo terrestre, una realtà assolutamente concreta e contemporanea verso la quale lo stesso Bowie dimostrò una grande attenzione nel corso della stesura del suo testo, visto che in fondo al libretto originale di “Lazarus” era riportato il sonetto “The New Colossus” della grande poetessa Emma Lazarus (una coincidenza il cognome? Non credo proprio), quello che, per capirci, si trova inciso sul piedistallo della Statua della Libertà di New York. Sono certo che Bowie sia stato particolarmente affascinato da questa lirica e dalla sua profonda lezione sui concetti di libertà, fratellanza e dignità umana. D’altronde, non è certo una novità che, in qualsiasi tipo di operazione si sia cimentato nel corso della sua variegata carriera, il fu Ziggy Stardust sia sempre stato uno che non lasciava niente al caso, che studiava a fondo le cose, anche quando, in apparenza, sembrava così istintivo sul palco o nella sua dimensione pubblica. Ecco, fatta questa premessa, direi che il mio Newton porta con sé le riflessioni del suo creatore, che vertono, oltre che sui temi citati poco fa, anche sull’invecchiamento, sul dolore, sull’isolamento e sulla psicosi indotta dai media nel mondo di oggi. Credo di essere stato piuttosto fedele alla sua idea di partenza.
Data la complessità dello spettacolo, crede che possa cambiare di replica in replica rispetto a quanto si è visto dal debutto di Cesena dello scorso marzo? E, più in generale, nel suo modus operandi c’è spazio per improvvise variazioni strutturali o preferisce delle “partiture” ben definite?
Dobbiamo partire dal presupposto che il teatro è un qualcosa di vivo per definizione, è come un albero, vibra e muta di istante in istante. Io, per natura, non amo le formule chiuse, anche se “Lazarus” ha di certo una sua forma ben definita. Quindi la risposta è sì, certo che cambierà! E a questo cambiamento contribuirà anche il pubblico che lo verrà a vedere, che sarà responsabile della sua “costruzione”. Tra l’altro trovo molto affascinante che le persone che gli spettatori saranno, nello stesso tempo, i classici abbonati di teatro di una certa età e tanti ragazzi e/o appassionati, probabilmente attirati dall’aspetto musicale. Come reagiranno e quanto saranno diverse le loro reazioni di fronte a quello che vedranno? Ecco, anche questo contribuirà a ricostruire continuamente l’identità dello spettacolo.
È noto quanto, tanto a livello musicale che estetico, Bowie sia stato sempre un artista con una marcia in più, sempre proiettato sul futuro. Ci spiega, dal suo punto di vista, se lo è stato anche in questo “Lazarus” e perché?
Il lascito di Bowie, come ho in qualche modo accennato anche prima, è enorme perché è stato un artista molto attento e scrupoloso, oltre che molto poliedrico. Io penso che “Lazarus”, con tutta la ricchezza dei temi che lo definiscono, verrà sempre più fuori alla distanza. È un’opera rock, è vero, ma questo non gli impedisce di essere molto intima, dolorosa, e di saper trattare certi temi distopici (e dispotici) con un’attitudine mai commerciale. Con il plus, direi per nulla indifferente, di poter beneficiare di una musica sublime come quella del suo autore. Metterlo in scena, per me, è stato davvero un piacere, anche perché, senza forzature, mi ha permesso di lavorare seguendo liberamente la mia volontà e fondendo in modo creativo diverse componenti espressive: oltre alla musica e al teatro, infatti, hanno avuto una grande importanza anche la definizione del movimento, la cura della danza e l’allestimento scenico, per quanto apparentemente molto scarno rispetto a quello che uno si sarebbe potuto immaginare.
Come regista, lei riesce spesso a portare nel nostro Paese drammaturgie contemporanee originali. Che cosa la guida nella ricerca/scelta dei testi e come opera a livello di scouting?
A me piacciono le opere che hanno una lingua importante, ricca di musicalità, oltre che di senso. È, questo, un fattore che mi ha sempre guidato quando si è trattato di mettermi alla ricerca di testi. Certo, oggi non ho più la facilità di spostarmi e di incappare nelle novità in cui mi capitava di incappare quando ero più giovane e libero di muovermi, ma, come produttore, mi fido molto del mio intuito. Una cosa, comunque, è certa: mi piace dirigere e produrre lavori che contengano germi di alterità rispetto a quelli che possono essere i gusti più convenzionali, compresi i miei. Questo, tra l’altro, mi spinge ad affrontare i classici che metto in scena come fossero dei contemporanei e, viceversa, a rivolgermi al “mito” quando mi trovo tra le mani testi contemporanei.
“Lazarus” è senza dubbio uno degli spettacoli più attesi di questo 2023. Sinceramente, quali riscontri si aspetta di ottenere e quali messaggi le piacerebbe che passassero attraverso di esso?
Nessun messaggio in particolare, ad essere sinceri. Vorrei che trasmesse la pura energia, la pura corrente emozionale di cui certo si sostanzia, quella che David Bowie più di una volta ha definito “l’informazione” quando gli è stata rivolta una domanda come questa. E, certo, spero siano in tanti a riceverla.