Non è indimenticabile, ma il “Macbeth” di Joel Coen è un film importante
Con colpevole ritardo, ho recuperato “The tragedy of Macbeth”, adattato per il cinema da Joel Coen lo scorso anno. Sono passati un po’ di mesi dalla sua distribuzione (per l’Italia, su Apple Tv +), ma uno nella vita ha anche altri impegni. Per esempio: fingere di non darsi pace per la nazionale ai mondiali. Un aspetto meraviglioso del cinema in streaming è che non ha scadenze, o quasi.
Certamente, prima che un film venga cancellato da una piattaforma possono passare anni, e questo Macbeth, che la sala del cinema non l’ha mai vista, era lì paziente ad aspettarmi. Mi sono messo comodo, ho tirato un lungo respiro e ho premuto play. Dopo un’ora e tre quarti, il film è finito. Un paio di giorni più tardi, ho premuto play ancora una volta, e poi di nuovo, una terza.
Alla fine di queste tre visioni, ho pensato che sì, una recensione sul Macbeth di Joel Coen era sicuramente tardiva, ma se è vero che ogni recensione è una visione unica e personale del film, e se è vero che il mio compito qui è di dire la mia, questa recensione ha ancora un senso.
Per di più, verrebbe da domandarsi il contrario: come giustificare quella tempesta di articoli sul film a poche ore dalla sua uscita? Se escludiamo una piccola fetta di critica che l’ha visto in anteprima, tutti gli altri si sono bevuti il film in una sola visione, e giù subito di recensione. Per fortuna la redazione per cui scrivo non ha mai sofferto di certi isterismi.
Macbeth è un film complesso, va visto con attenzione, non è uno yogurt da consumare entro la data di scadenza. Capire per bene quali sono le intenzioni di un film può richiedere settimane, mesi.
Adesso facciamo finta che questo sia un articolo del New Yorker, così posso risparmiarvi il riassunto della trama. Sto dando per scontato che tutti i miei lettori leggano Shakespeare prima di andare a nanna. L’esordio in solitaria di Joel Coen (sì, lo sapevate che è in solitaria, no? Sennò qual è il bello di scrivere articoli in ritardo?) è prodotto dalla A24, e questo non è un dato trascurabile, tutt’altro. Che la casa di produzione newyorkese abbia messo le mani su questo Macbeth è chiaro dal primo istante: bianco e nero, rapporto dello schermo a 4:3, inquadrature per lo più fisse, e tutti gli altri (verissimi) stereotipi sulla A24.
Ogni tanto la ciambella esce fuori con il buco, e Macbeth è uno di quei casi in cui tutte queste cose belline, pretenziose, che nascondono qualcosa di più irritante della semplice ambizione, si incontrano felicemente orchestrate da un regista che ha fin troppa esperienza e talento per potersi lasciare abbindolare dalla tentazione di tirare su un film di immagini vuote, sconnesse, maestose tanto quanto insignificanti, quindi ottime per il pubblico di Instagram (perché in fin dei conti, di questo si tratta).
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Ecco, Joel Coen senza Ethan può lasciare qualche spazio bianco, può far sentire un vuoto, non è certamente memorabile come sa esserlo quando, negli anni addietro, ha firmato alcune delle pellicole più belle del cinema moderno, ma è un grande professionista, uno che sa cosa vuole raccontare, sa addomesticare le maestranze perché non spingano mai troppo sui pedali, e il suo Macbeth non preme mai sull’acceleratore, ma è un noir elegante, oscuro, incredibilmente sobrio, non decolla e non rallenta.
Entriamo nel vivo: c’è uno splendido Denzel Washington.
Recita all’americana un Macbeth anomalo, perfetto anche nelle allucinazioni isteriche, davvero plagiato dalla profezia. È un uomo che ha potuto guardare nel suo futuro, conosce la previsione dell’oracolo ma soprattutto conosce o crede di conoscere il prezzo da pagare perché si avveri, e per questo non è mai realmente tormentato, piuttosto esausto.
Il suo Macbeth ha già visto davvero tutto, ogni scenario, ha fretta che la previsione delle streghe si compia. Impossibile staccare lo sguardo da Washington, incredibile mentre recita il “Domani, domani e domani…”. Coen lo sa, e gli dedica tanti primi piani, mezzi busti, è una goduria per gli occhi dall’inizio alla fine.
Meno interessante Frances McDormand.
Brava ma didascalica, fa una Lady Macbeth spettrale, per merito di Coen, ma prevedibile in ogni smorfia, e questa sì, è colpa sua.
Può sembrare banale, ma la durata è un aspetto importantissimo. La straordinarietà delle opere di Shakespeare sta nella rapidità con cui gli eventi avvengono e quindi con cui il lettore può, in una manciata di pagine, entrare e uscire da una tragedia. Joel Coen è riuscito a rimanere sotto il tetto delle due ore, portando a casa un lavoro che restituisce la natura rapida, concisa delle grandi storie shakespeariane, senza fronzoli. Prima di lui, soltanto Orson Welles con un Macbeth di 100 minuti (sto considerando i grandi, sicuramente un vostro cugino ha adattato Shakespeare in meno di due ore, una volta, ed è stato bravissimo).
Parliamo quindi dell’elefante nella stanza.
Il paragone con le precedenti riduzioni per il cinema non è obbligatorio, ma naturale e mi serve per chiudere l’articolo. Naturale è anche chiedersi, nel 2022, perché mai un regista senta il bisogno di trasporre Macbeth per il cinema. La risposta, forse, è che ogni regista ha una lettura personalissima che racconta qualcosa di sé o della sua epoca, e sto pensando a Kurosawa, che mise in scena un Macbeth nipponico e feudale, e a Polanski, che fece un Macbeth noto per la sua ferocia.
Può piacere o meno, ma dobbiamo aspettare per un vero giudizio. Diamoci qualche anno, vediamo cosa succede. Potrebbe accadere che questo Macbeth, fra un decennio, verrà considerato un cult. È un film della A24, una casa di produzione che sta riscrivendo da zero il linguaggio del thriller e dell’horror sofisticato.
Oggi, un autore che vuole fare dell’orrore più intellettuale, che non vuole fare Annabelle, insomma, va dalla A24, e se non può arrivarci la guarda, sbircia, copia. Fra dieci anni questo gusto si sarà imposto una volta per tutte, ci sarà una generazione abituata a pensare al thriller o all’horror autoriale con quella idea di cinema che oggi lentamente si sta imponendo.
E allora, quel pubblico di ragazzi che ha imparato ad apprezzare The Lighthouse, The Witch, Midsommar, avrà il suo Macbeth, e sarà il Macbeth di una generazione, e i giovani (come ha senso che accada, con questi film) conosceranno l’opera e il suo autore, scopriranno Shakespeare e forse si appassioneranno, riscoprendolo con una pellicola che parla la lingua che loro comprendono e apprezzano di più.
Per la A24 questo significa avere nella sua scuderia un Macbeth firmato da Joel Coen (scusate se è poco), per lui significa incontrare Shakespeare e consegnarlo nelle mani della più importante casa di produzione di questo momento. Non è un Macbeth indimenticabile, lo diventerà più in là, sarà ricordato per molto tempo, e come operazione di mercato è formidabile. Questo è comunque importante, ci basta.