Lucio Leoni si racconta: “Con le mie canzoni voglio stimolare la vostra curiosità. Mai dare nulla per scontato”
Brillante, eclettico e visionario, Lucio Leoni spazia, con ironia e fantasia, dal teatro canzone al rap, dal folk alla canzone d’autore, approdando a uno stile proprio e riconoscibile che sintetizza poesia e sperimentazioni sonore.
Nel 2017 è uscito”Il Lupo Cattivo” che lo ha portato in giro per l’Italia in un tour di 60 concerti. Ora l’artista romano è tornato sulla scena musicale con un nuovo lavoro discografico. “Dove sei pt.1” che rappresenta, infatti, il primo capitolo di un disco doppio che vedrà il suo secondo rilascio nei mesi autunnali.
Leoni presenta i primi otto brani di un corpus di sedici, che si immergono nel dove del tempo e dello spazio. Una sorta di capitolo finale di una trilogia iniziata con “Lorem Ipsum (gli spazi comunicativi)” seguito da“Il “Lupo Cattivo (il bosco da attraversare)”e che conclude adesso con “Dove sei”, un lavoro che si presenta già dal titolo senza punti interrogativi né esclamativi, bensì solo con la consapevolezza di essere qui e adesso.
Buongiorno Lucio! Come stai? Come stai trascorrendo queste giornate?
Nei limiti del possibile bene, siamo privilegiati. Abbiamo un tetto sopra le nostre teste, non ci si può lamentare. E’ stata dura e probabilmente lo sarà ancora di più.
L’8 maggio scorso è uscita la prima parte di “Dove sei”. Lucio Leoni dov’è adesso?
Bella domanda! (ride ndr) Sto cercando di capirlo. Questo disco, con quel titolo, che con la pandemia ha anche cambiato un pò senso, racconta il fatto che mettere punti di domanda dopo “dove sei” è pericoloso così come non metterli. Cercarsi è una strada complicata. Ad essere onesti non ho la più pallida idea di dove sono.
Come nasce questo progetto e perchè decidi di rilasciare il disco in due momenti dell’anno differenti?
Nasce da un lavoro molto lungo, di due anni, tra scrittura e lavoro in sala. In realtà quando si lavora ad un disco lo si fa per eccesso, si accumula tanto materiale e poi durante le registrazioni qualcosa si perde, qualcosa non viene bene oppure diminuisce di valore mentre lo ascolti. Quindi da un numero cospicuo di canzoni ne viene fuori un embrione del disco diverso da quello primordiale. Questa volta, invece, alla fine della lavorazione ci siamo accorti che c’e erano 16 brani che ci piacevano alla stessa maniera e quindi non ci andava di lasciare indietro nulla. Invece di tenere materiale per lavori futuri, abbiamo deciso di creare il classico doppio disco, come si faceva negli anni ’90. Poi siccome ho un approccio un pò prolisso alla scrittura, per non essere troppo antipatici, abbiamo separato le canzoni dando loro maggiore respiro.
Che differenza c’è tra Lucio Leoni del 2017 con “Lupo cattivo” e quello di oggi?
Per quanto riguarda la parte lavorativa credo di essere cambiato con riferimento all’ascolto. Questa volta ho fatto un lavoro molto più collettivo degli altri, sono stato molto più in ascolto dei musicisti e del gruppo di lavoro che ho scelto per sviluppare questo disco. Precedentemente arrivavo in sala con le idee molto chiare e proponevo delle soluzioni agli altri. In questo caso le soluzioni le abbiamo trovate insieme. La scrittura anche è stata completamente diversa. Di solito lavoro sulla prima bozza, invece in questo caso c’è stato un lungo lavoro di rifinitura dei testi. Sono tornato più volte a revisionarli, a cambiarli e anche a lavorare sulla singola parola. Cosa che fino ad oggi non avevo mai fatto. Non so se è l’anzianità che è entrata in gioco a farmi lavorare con più lentenzza e in maniera più certosina (ride ndr).
Che tipo di messaggio si percepisce dall’ascolto dei tuoi brani?
Non so se c’è un messaggio vero e proprio. C’è un consiglio, una spinta a continuare a porsi domande. Non dare mai nulla per scontato, non accettare la forma per come ci viene esposta ma guardare sempre dietro le tende. Quello che mi interessa è stimolare la curiosità più che mandare un messaggio.
Secondo te, questo invito che rivolgi, in relazione al periodo che viviamo, può assumere un significato diverso?
Io non so se questo periodo che stiamo vivendo cambierà in qualche modo l’essere umano. Non sono molto ottimista a dire il vero, non credo che due mesi di stop cambino qualcosa in positivo.
Interessante è il rapporto che hai con il teatro e la recitazione. Come incide questo mondo con quello musicale?
Credo parecchio. Ovviamente è qualcosa di cui non mi accorgo. E’ qualcosa che ho dentro come formazione anche se poi mi sono allontanato da quei palchi. La recitazione incide nella scrittura e nel lavoro del disco perchè contribuisce a darmi un focus costante su un centro narrativo e sul mantenere sempre attivo il fatto che stiamo raccontando storie e che c’è bisogno sempre di uno sfondo, delle quinte per contestualizzare quello che stai dicendo. Ovviamente il teatro mi aiuta anche quando lavoro sulla performance del concerto, che vivo come un vero e proprio spettacolo.
Durante la tua carriera hai mai pensato di lasciar stare la musica e concentrarti sulla recitazione?
L’ho pensato quando ero più giovane. In verità è stato un percorso opposto. Quando ero giovane ho pensato fosse meglio concentrarsi sulla musica perchè non ero così bravo come attore.
Come ti sei avvicinato alla musica?
Come tutti i bambini avevo voglia di imparare uno strumento. Mi piaceva la batteria ma la scuola dove mi iscrissi non ce l’aveva e quindi sono finito a suonare la chitarra classica. All’inizio mi divertiva, poi col passare del tempo mi ha annoiato. Allora mi sono rifiutato di andare avanti e ho lasciato stare. Studiando drammaturgia e teatro in qualche modo mi sono riavvicinato alla musica. A 17 anni sono stato folgorato da un concerto che mi ha dato il senso di cosa volesse dire stare sù un palco e far divertire le persone. Da lì mi sono riavvicinato piano piano.
Cosa pensi di quello che vive oggi il mondo della musica, in piena crisi sanitaria?
Il mondo dello spettacolo è abbandondato a se stesso già da prima della pandemia. Vive in condizioni disastrose da un punto di vista delle tutele e delle garanzie. Quello che ha fatto la pandemia è stato mettere in luce tutta una serie di falle molto grandi per cui non credo che sia utile ora un piagnisteo sull’assenteismo dello Stato. Questo è il momento del confronto di tutte le parti in causa. Forse è l’ora di riorganizzarsi da un certo punto di vista. Lo Stato non si è mai occupato di noi, ma bisogna dire che anche noi siamo stati un pò passivi. Questa di oggi è un’opportunità.
Cosa ti è mancato di più della normalità?
Gli amici e il confronto. Abbiamo fatto due mesi ad ascoltare notizie sul virus che in fin dei conti erano sempre le stesse. Tutti i voli che si fanno con la testa non hanno mai uno sfogo, un momento di liberazione. Quindi ci sono giorni in cui ti senti un superuomo e giorni invece che hai l’umore sotto i piedi. Appena possibile organizzerò un pranzo con gli amici, un pranzo di quelli belli, domenicali, anche se a distanza.
ph. Simone Cecchetti