Luca Ward: la gavetta, il teatro e la vita dietro un microfono. Il doppiaggio più difficile? Ecco quale..
La sua voce lo ha reso famoso in tutto il mondo. E’ uno dei doppiatori più conosciuti nel panorama italiano, e non solo. Affascinante, geniale, ma anche divertente e dal sorriso contagioso, Luca Ward non smette mai di stupirci. Campione d’incassi insieme a Paolo Conticini nel musical “Mamma Mia!”, l’attore romano – precisamente di Ostia, come tiene a sottolineare a The Walk of Fame – è tra i protagonisti di Full Monty, edizione totalmente rinnovata del famoso musical di Broadway a firma di Massimo Romeo Piparo.
Insieme a Paolo Conticini, Gianni Fantoni, Jonis Bascir, Nicolas Vaporidis e un grande cast con orchestra dal vivo, danno “corpo” e anima ai disoccupati più intraprendenti della Storia del Musical emozionando i maggiori teatri italiani.
Stai girando l’Italia con “Full Monty”, nuovo spettacolo di Massimo Romeo Piparo, trasposizione teatrale del famoso film del 1997. Qual è, secondo te, la forza di questo show?
E’ uguale a tutti quelli che il teatro Sistina produce. Si tratta di produzioni di grande qualità, di kermesse in cui lo spettatore si trova di fronte grandi professionisti. E poi sono molto coinvolgenti, sia da un punto di vista emotivo che di divertimento. Purtroppo, per lo meno ultimamente, siamo abituati a un teatro un po’ noioso, mentre il musical, che in Italia viene bistrattato, trasporta il pubblico e lo fa sbellicare dalla risate. E questa, non è cosa da poco. In un musical noi siamo attori veri e propri. Ci definiscono “performer”, ma non è così. Cantiamo, balliamo e recitiamo. Ci mettiamo alla prova su tutto e proviamo a riportare le persone a teatro – soprattutto i giovani – perché altrimenti fra venti anni saranno vuoti. Questa è una scommessa che abbiamo fatto anche con Piparo, regista e produttore di Full Monty.
Che ruolo interpreti sul palcoscenico?
Interpreto Aldo Parisi, il manager della Fiat. All’inizio è uno stronzo, è molto duro, è colui che licenzia gli operai. Poi, però, si trasforma. In scena, quando i lavoratori si lamentano per aver perso il lavoro, pronuncia una frase importante, vero motivo di riflessione: “Non state a pensare troppo a quello che lo Stato o il sindacato sta facendo per voi, ma pensate piuttosto voi che cosa potete fare per voi stessi”. In un certo senso è questo lo spirito dello show.
Decisamente di stretta attualità…
In Italia siamo sempre abituati a dare la colpa agli altri. Anche quando si perde un lavoro è colpa dello Stato o del sindacato, ad esempio. E’ vero, il lavoro si può perdere e io lo so bene, la mia è una professione precaria dai tempi dei tempi, però bisogna rimboccarsi le maniche. Bisogna darsi da fare e sicuramente qualcosa viene fuori. Questo è in sostanza il messaggio che vuole trasmettere lo spettacolo. Full Monty è molto più attuale oggi che non nel 1997.
In che senso?
Negli anni ’90 la gente non perdeva il lavoro nella stessa frequenza di come accade nel periodo che stiamo vivendo, si parlava di tutt’altro. Oggi invece chiudono fabbriche, negozi, le aziende vengono vendute ai grandi marchi esteri e migliaia di persone si trovano in una forte difficoltà. Quindi lo spettacolo è decisamente attuale, ma anche in questa condizione e drammaticità facciamo ridere lo spettatore per tre ore, tanto che alcune volte viene da ridere anche a noi sul palcoscenico.
Osare, oltrepassare gli schemi e puntare sull’originalità possono essere gli ingredienti giusti per aiutare il teatro?
Si, decisamente. Oggi viviamo in un mondo molto veloce, tra internet, piattaforme digitali che offrono una miriade di serie televisive straordinarie e tanto altro. Il teatro deve, in un certo senso, stare al passo con i tempi. Bisogna produrre di meno, se proprio, ma bene, facendo divertire o emozionare il pubblico. Noi italiani siamo capaci, abbiamo delle risorse straordinarie.
Con la tua voce hai conquistato il pubblico italiano e sei tra i doppiatori più famosi di sempre. Ma come si arriva a questo livello? Quale è il segreto, ammesso che ve ne sia uno?
E’ stato un duro lavoro. Ho mosso i primi passi da bambino, con i grandi sceneggiati Rai. Ma ero un attore, non facevo il doppiaggio. I miei genitori erano attori e quindi ho iniziato anche in maniera giocosa. Il doppiaggio è venuto dopo e, in realtà, non ero così tanto bravo. All’epoca non avevo ancora capito bene il meccanismo poiché, a dire il vero, è abbastanza complesso e quindi ero l’ultimo degli ultimi. Vedendo i miei coetanei fare strada, mi sono messo a studiare per conto mio e per anni mi sono esercitato con un registratore. Mio padre non mi ha aiutato perché purtroppo mi hai lasciato presto e mia mamma doveva prendersi cura della famiglia. Un giorno quel meccanismo si è sbloccato, sono partito e non mi sono mai più fermato. La verità è che questo rappresenta uno dei settori più difficili e complessi dello spettacolo.
Nella lunga lista di attori e personaggi cui hai prestato la voce, qual è quello che ti ha dato più soddisfazione e quello che ti ha dato più gusto doppiare?
Beh, soddisfazione me ne hanno data tutti. Alcuni film sono anche diventati dei cult: Pulp Fiction, Il Gladiatore, Il Corvo, 007 e tantissimi altri. La scommessa a livello professionale è stata sicuramente Pulp Fiction poiché estremamente difficile. La notorietà ovviamente è arrivata con Il Gladiatore. A dire il vero, me ne accorsi per caso, perché lo doppiai e basta, ma non lo vidi subito. Infatti i primi tempi la gente mi fermava per strada e mi salutava come “generale”. Il film, alla fine, l’ho visto due anni dopo, a Sperlonga. Mi convinsero a vederlo i marinai del porto e in quell’occasione mi resi conto di che capolavoro fosse.
Da un punto di vista umano, qual è l’attore doppiato cui ti senti più vicino?
Tanti, ma Hugh Grant è quello che si avvicina molto alla mia personalità. Mi piace per la sua indipendenza, non segue correnti politiche, è un rivoluzionario, contro tutto e tutti e contro l’establishment, un po’ come me. A livello recitativo, invece, Russel Crowe è quello che mi è più affine. Siamo molto simili, non fisicamente, eh (ride ndr) ma da un punto di vista recitativo. Non ho alcuna difficoltà a doppiarlo, lavora come lavoro io. Ho, tra l’altro, appena finito di doppiarlo in una serie tv davvero interessante “The Loudest Voice” che consiglio spassionatamente. Siamo talmente tanto simili che quando mi scelsero per “Il Gladiatore”, addirittura Ridley Scott inviò una mail per assicurarsi che fossi scelto proprio io.
Stai prestando la voce anche a Johnny Silverhand, personaggio del videogioco Cyberpunk 2077, che differenze ci sono con i film e pensi che il doppiaggio italiano in questo settore stia migliorando?
Le differenze sono enormi, noi non vediamo le immagini e quindi doppiamo solo sui file audio che ci danno. Non vedendo il volto del personaggio risulta decisamente più difficile. Sicuramente quando si potrà doppiare guardando il videogioco il risultato sarà nettamente superiore. Purtroppo solo da poco i produttori di videogiochi si stanno rendendo conto di quanto sia fondamentale il doppiaggio. Si convive per mesi con un videogioco, a differenza di un film, e quando il doppiaggio è fatto male si preferisce ascoltarlo in lingua originale. Mio figlio, ad esempio, fa così, anche se lui non ci capisce nulla e da grande vuole fare il pilota (ride ndr).
Ti senti un “walk of famer”?
No, assolutamente. So di aver cresciuto un paio di generazioni con il mio lavoro, ne sono felice e la cosa che mi rende ancora più contento, molto di più di avere una stella su una strada, è la soddisfazione di quelli ancora più giovani che oggi vedono film da me doppiati quando loro ancora non erano nati. Mi riconoscono e mi stimano. Questo vale più di qualsiasi altra stella!
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