Lontano da schemi e convenzioni, Micol Harp e quell’arpa suonata per infrangere le regole della musica
Ha trasformato uno strumento che nell’immaginario collettivo è sempre stato percepito come la quintessenza del classico e dell’antico, l’arpa, in un’ “arma” per suonare rock. Stiamo parlando di Micol Picchioni, meglio conosciuta come Micol Harp, che sabato 15 febbraio 2020 alle ore 21 farà tappa al Teatro dei Marsi di Avezzano (nell’ambito della stagione musicale dello stabile marsicano) con il suo Street Music Tour. In attesa dell’evento, abbiamo scambiato quattro chiacchiere con l’artista genovese.
Quando hai capito di dover uscire dal tuo “habitat naturale” e provare ad andare altrove? E hai mai avuto paura che il percorso classico che avevi seguito prima non fosse stato quello giusto per te?
Fin dagli albori della mia carriera mi sono sempre sentita diversa. Intendiamoci, amavo la classica ed ero felice di suonarla, tanto più con un mostro sacro come Riccardo Muti a dirigermi. Però… dentro di me, sapevo di voler “impazzire”, di voler fare qualcosa che nessuno si sarebbe aspettato. E poi ho sempre nutrito il desiderio di andare incontro alle persone, di assaggiare la strada. A un certo punto questo desiderio si è fatto così pressante da indurmi ad abbandonare tutto quello che avevo raggiunto fino a quel momento e a inseguire i miei sogni.
Quanto è stata importante l’esperienza da busker, da artista di strada, per definire il tuo stile e quali prospettive ti ha aperto, musicalmente parlando?
Fondamentale. In primo luogo perché quella dimensione mi ha fatto finalmente sentire me stessa al cento per cento. Ha innescato un crack emozionale che cercavo da tempo, regalandomi una percezione nuova del mio strumento, proprio quella che stavo cercando. È come se all’improvviso mi si fossero spalancate delle nuove porte di fronte, dandomi la possibilità di osare con degli arrangiamenti a dir poco inusuali rispetto a quelli che avevo sempre sperimentato e cambiando completamente anche la mia postura nell’esecuzione. Ho cominciato a suonare in piedi, con un cubicolo a fare da sostegno alla mia arpa che si è davvero trasformata in un mezzo di espressione diverso rispetto al passato.
Ecco, a proposito di questo: nei tuoi live, il rapporto che mostri avere con la tua arpa è molto fisico, sembri quasi un chitarrista con la sua sei corde tra le mani. Pensi che questo modo di viverlo ti sia in qualche modo sempre appartenuto o è venuto fuori soltanto quando hai scoperto la tua vera vocazione?
Ti dico la verità: non è che io soffrissi da normale musicista classica, ma sentivo che quell’approccio convenzionale, seduto anche metaforicamente talvolta, non poteva essere per sempre il mio. Avevo bisogno di altre possibilità, di altri orizzonti anche “fisici” rispetto allo strumento. E quando mi sono aperta all’ascolto del rock, in particolare ad alcuni fuoriclasse come Bruce Springsteen, Genesis e Led Zeppelin, ho capito dove volevo andare e ho preso una nuova strada. Una nuova strada dove le regole da seguire, anche quelle relative alla postura e al modo di suonare, sono mie, sono quelle che mi detta il mio cuore.
Come hai scelto le canzoni da coverizzare nel tuo esordio “Arpa Rock” del 2018? Sei stata guidata soltanto dal tuo gusto personale o ci sono state alla base anche delle motivazioni legate alle specificità tecniche dell’arpa?
No no, soltanto una questione di gusto personale. Tutto il mio repertorio è stato costruito partendo da quello che sentivo dentro, da quello che mi innescava le vibrazioni giuste. Che so, Fifth to fifth dei Genesis o Born to run del Boss, sono pezzi che ho sempre “abitato”. Per me è stata una conseguenza logica sceglierli, come pure tutti gli altri che potrete ascoltare.
Un giorno ascolteremo un album di Micol composto interamente da tuoi inediti?
Credo proprio di sì. A breve, intanto, uscirà il mio nuovo album, “Play”, all’interno del quale convivranno sei canzoni scritte da me e sei cover. Tra quest’ultime, vorrei evidenziare la rivisitazione di uno dei classici per eccellenza della dance anni Novanta, Children di Robert Miles. Lo faccio perché, in qualche modo, rappresenta una sorta di ponte con l’umore che permea quello che sto buttando giù da un po’ di tempo a questa parte. Il rock mi ha “liberata”, adesso ho cominciato ad ampliare il respiro della mia musica anche ad altri ambiti, per concedere uno sfogo pressoché illimitato a tutte le mie fantasie, a tutti i miei mondi. Inoltre, amo tantissimo i ritmi caraibici e adoro ballare, perciò non volevo proprio fare a meno di dare ai miei pezzi un’impronta che potesse testimoniarlo. In sede di produzione artistica e di arrangiamenti, ho avuto poi la fortuna di poter lavorare con due grandi professionisti come Max Marcolini (produttore di Zucchero) e Fabrizio Simoncioni (già alle tastiere con i Litfiba). Spero che il disco possa piacere.
Il lancio della tua carriera, come spesso succede al giorno d’oggi, ha avuto un impulso fondamentale dal mondo dei social. Da musicista, quali pensi siano i vantaggi e gli svantaggi di questo canale promozionale rispetto a quelli più canonici dell’industria discografica “classica”?
Guarda, più che i social, io credo che per farmi conoscere sia stato fondamentale il passaparola delle persone che si trovavano a vedermi mentre mi esibivo in qualche piazza romana o nel resto d’Italia. È stata una cosa fantastica che poi, sì, si è sostanziata nella realtà dei social, regalandomi soddisfazioni enormi. Una su tutte: le 80.000 visualizzazioni giornaliere del video in cui suono Born to run. I social hanno capacità di creare reti impensabili, anche se, naturalmente, mi piacerebbe inserirmi anche in un contesto di promozione e di struttura più tradizionale come quello dell’industria discografica convenzionalmente intesa. Spero di riuscirci presto.
Al Teatro dei Marsi, salirai sul palco con la formazione per eccellenza del rock, il power trio. Credi sia questa la dimensione che ti aiuti meglio ad esprimerti dal vivo?
Sì, assolutamente, adoro i power trio che hanno fatto la storia della musica, come, che so, la Jimi Hendrix Experience. Con i miei compagni di avventura, Luca Amendola al basso e Manuel Moscaritolo alla batteria, si è creata l’alchimia perfetta per esprimermi. Ero stufa di suonare da sola, anche per un fatto di pura credibilità visiva. Non è facile fare rock da soli, senza un basso e una batteria, no? Con loro ho trovato la chiave di volta che cercavo e ho continuato anche a rompere gli schemi rispetto alla percezione standard riservata all’arpa. Arrivare a formare un power trio è stato un passo in avanti decisivo per me, sia in termini musicali che di appeal scenico.
Oltre al background classico che immagino abbia caratterizzato i tuoi primi ascolti, cosa ha sentito e cosa sente Micol nella sua vita?
La scoperta ad ampio raggio del rock mi ha cambiato in modo definitivo, come ho già detto, è quello che mi ha aperto il cuore, oltre alla mente. Springsteen, i Led Zeppelin, Jeff Buckley… li amo! Ma ho sempre avuto dentro di me anche il germe dell’onnivoro doc! Mi piacciono da morire i Massive Attack e il trip hop, per esempio, per non parlare della musica caraibica o di quella brasiliana. E sono una fan assoluta di Michel Camilo. Poi devi considerare che, oltre ad essere molto curiosa nei confronti della musica (a titolo di “documentazione”, ascolto anche tutto quello che va per la maggiore oggi, trap compresa), sono molto umorale negli ascolti, quindi in una singola giornata posso davvero dedicarmi a tanti generi diversi.
Suoni altri strumenti oltre l’arpa?
Sì, il pianoforte (con il quale tra l’altro apro i miei live prima di passare all’arpa). E mi diletto nel canto, anche se non uso la voce come una cantante propriamente detta, ma come se fosse uno strumento. Quando uscirà “Play” lo si capirà meglio, adesso fammi mantenere un po’ di mistero!
Il posto dove vorresti suonare e la collaborazione che sogni ad occhi aperti.
New York, senza alcun dubbio. Spero di riuscirci presto, che sia un’arena prestigiosa o anche una più underground. Per quanto riguarda invece la collaborazione, nessun dubbio: Bruce Springsteen. Dividere il palco con lui anche solo per pochi minuti sarebbe un’emozione lavorativa e umana insuperabile.
Domani sei costretta a fuggire su isola deserta e puoi portare con te, oltre al lettore cd (con batterie solari, certo!), soltanto cinque dei tuoi dischi. Quali porteresti?
La colonna sonora di The Bodyguard di Whitney Houston, Selling England by the pound dei Genesis, One more once di Michel Camilo, Nevermind dei Nirvana e un disco qualsiasi di salsa per poter ballare un po