Con London Calling i The Clash misero Londra in ginocchio
14 dicembre 1979: la storia del punk cambia. Il rock non sarà più lo stesso. I The Clash destabilizzano un sistema apparentemente solido
“London Calling” è il terzo album della band suddita di sua Maestà, una miscela di punk, ska, raggae unico. “Sudditi di sua Maestà”? Per favore, non scherziamo. Un’apoteosi di influenze, idee, concetti mai più espressi. Un forza sonora universale, frutto di un impatto dirompente. Il full-lenght in questione è, per molti, considerato il punto di non ritorno della musica punk. L’apice. La vetta più alta, quella ancora inesplorata. L’esaltazione di un lifestyle ancora tutto da scoprire. Un viaggio, prima che musicale, introspettivo.
L’uscita di London Calling spiazza tutti, scena punk in primis. Dove sono le creste alte e colorate? Dove sono le borchie e gli sputi sul pubblico? Dovo sono i “fuck” sciorinati come virgolette all’interno di un discorso? Dove è, in definitiva, quella volgarità e quel rifiuto del sistema che aveva contraddistinto uno dei più floridi movimenti nati nell’Inghilterra della seconda metà del ‘900?
L’album è, di tutto ciò, un emblema, un archetipo, un concetto. E Joe, Mick, Paul e Topper lo elevano, lo esaltano. Lo spolpano della sua essenza di facciata, lo infrangono con naturale consapevolezza di come le etichette fossero per loro un primo, vero, limite. E come tale, quindi, decidono di strapparle e gettarle con innato disprezzo. Eccola lì la vera forza del punk. Rifiuto del sistema, certamente, ma anche di qualsiasi targhettizzazione. Rifiuto di essere bollati in un determinato modo. Questo capolavoro che oggi compie 40 anni è di tutto ciò fiero portabandiera.
“Mi piaceva il fatto che non c’erano restrizioni. Quando sono entrato nei Clash ero un discreto batterista. Un normale batterista dalla mano leggera. Poi ho imparatato a picchiare forte sui tamburi e Mick e Joe hanno scoperto che riuscivano a scrivere moltissimi tipi di musica”
Le parole di Topper non potrebbero descrivere meglio lo stato d’animo con il quale la band entrò in studio di registrazione dopo il tour a stelle e strisce di Give’Em Enough Rope. La totale consapevolezza di libertà artistica e creativa, ben sposata con l’utilizzo incondizionato di qualsiasi miscela di note provenienti da altri generi e altre culture, rese London Calling una bomba a orologeria. Il tempo di esplodere e nulla sarebbe stato più come prima.
Da quella Londra benpensante, rea di essere borghese nell’aspetto ma proletaria nell’anima, si innalzò un grido di rabbia e di rifiuto. Londra, l’Inghilterra, la musica rock, erano cadute, in ginocchio, conquistate da quei quattro lì che da giovanissimi sognavano, al massimo, di suonare nei pub del posto.
Una “Revolution Rock“, come venne definita, analoga solo a quella dei colleghi più illustri che, mediante la loro arte, hanno portato un genere musicale a un livello successivo, quasi magistrale, di paradisiaca fattura. The Beatles, Elvis Presley, Jimi Hendrix. Così, giusto per citarne alcuni, i primi che vengono in mente. Una rivoluzione rock da disco di platino in Italia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Da disco d’oro in Canada e Francia. Sessantacinque minuti di musica leggendaria, immortale, che sono valsi l’ottavo posto nella classifica dei 500 migliori album di sempre da parte di Rolling Stone.
Leggi anche: American History X: il film che ha stravolto la vita di Edward Norton
Per celebrare l’illustre anniversario, al The Museum of London nell’aprile del 2020 venne allestita la mostra gratuita dal nome The Clash: London Calling, dove furono esposti circa 160 cimeli tratti dall’archivio della band. Dischi, abiti, fotografie, video inediti, appunti presi direttamente dalla sala prove. La mecca per tutti i fan di Joe Strummer e del rock più in generale. Ne citiamo uno su tutti: il basso Fender Precision che Paul Simonon distrusse sul palco del Palladium di New York nel 1979.
Leggi anche: “Silence”: Martin Scorsese e il peso del silenzio