Lo Squalo, perché è un classico senza tempo
Qualche tempo fa qualcuno – credo Ice Cube – disse in un’intervista a Wired che “Lo Squalo” di Steven Spielberg era per lui il più grande film di tutti i tempi. Per quanto sia difficile prendere posizioni così nette, è facile condividere un’affermazione del genere, non soltanto perché ci si trova di fronte a un vero e proprio classico del cinema mondiale, targato 1975, ma perché il film in questione è tutto ciò che ogni spettatore cerca all’interno di un film, mescolato perfettamente: tensione, divertimento, una memorabile colonna sonora e uno dei più grandi villain di tutti i tempi: lo squalo.
Chi l’avrebbe mai detto che anche in un paese come l’Italia, un film su uno squalo che terrorizza una spiaggia avrebbe suscitato così tanto spavento? Il capolavoro di Spielberg, che ha superato i 10miliardi di dollari di incasso, è stato fonte d’ispirazione per tanti prodotti, negli anni seguenti: una scenetta del Saturday Night Live, tantissimi riferimenti all’interno de I Simpson e I Griffin, un parco a tema degli Universal Studios e tre sequel.
Ma soprattutto, ha plasmato un genere: soltanto tre anni dopo l’uscita de “Lo Squalo”, Joe Dante rilasciava la sua pseudo-parodia, “Piranha”, che ha visto anch’essa un sequel e due remake. Negli anni successivi, è diventato naturale per migliaia di persone che vivevano sulla costa, andare in cerca di squali, per sport: “Poco dopo la pubblicazione del film, la pesca degli squali come sport è diventata popolare e nel decennio successivo centinaia di club e tornei di pesca di squali sono nati lungo la costa orientale degli Stati Uniti” – ha scritto nel 2013 il biologo della pesca José Castro – “il numero di grandi squali è diminuito di circa il 50% lungo la costa orientale del Nord America negli anni successivi al debutto del film”.
Anche Peter Benchley, autore dell’omonimo romanzo uscito l’anno precedente, è rimasto stupito dalla risposta del pubblico al film, nonostante lui lo reputi una porcheria. Di base, perché gli squali non sono quelli rappresentati all’interno del film. Sono persone migliori. In attesa di un movimento di emancipazione per gli squali bianchi, che sono persone squisite a differenza dei cavalli, cerchiamo di capire insieme perché il film di Spielberg è un capolavoro senza tempo, e soprattutto cos’è che dovremmo continuare ad apprendere da una pellicola che – non sembra – ma ha sulle spalle ben 45 anni.
La colonna sonora di John Williams
La prima cosa che ho imparato durante il breve corso di Storia del Cinema all’università, è stato che la colonna sonora di un film spiega meglio di ogni altra cosa lo spirito della pellicola. E la colonna sonora dello Squalo non solo racconta benissimo la ricerca del brivido del film, ma è anche ciò che tutti noi conosciamo da sempre de “Lo Squalo”, prima ancora di averlo visto. All’epoca spaventò un’intera generazione, oggi è il simbolo per eccellenza del pericolo, inconfondibile come l’Alert di Metal Gear Solid, ma riconoscibile da più generazioni. Semplicemente perfetta.
La ricerca dell’effetto non speciale
L’ho buttata sull’intellettuale, ma è proprio così: il grande successo de Lo Squalo, oggi come ieri – ma soprattutto oggi – è l’assenza di affetti speciali. Non soltanto il lavoro certosino compiuto artigianalmente, ma la volontà di Spielberg di non spaventare attraverso mostriciattoli ricreati al computer. Lo Squalo non è un film grottesco, né vuole essere un horror ludico, scanzonato, che la butta in caciara con due mostri e una strega fatta in cgi. No, Lo Squalo vive solo del suo predatore, ben nascosto sotto il manto dell’oceano, che tutti temono e che nessuno ha mai visto. Sin dai primi minuti del film, quando Lo Squalo è stato presentato e non ancora mostrato, assistiamo a una serie spassosa di fake-out: Spielberg si diverte a prendersi gioco dello spettatore, mostrando tante possibili apparizioni, che poi si rivelano errate, e tante papabili vittime, che alla fine la scampano senza problema. Ogni volta che vediamo qualcosa emergere dall’acqua, una pinna che poi si rivela di cartone, una testa che si rivela umana, una sagoma ma in realtà un riflesso, Spielberg instilla in noi il terrore che lo squalo stia per attaccare, che è sia la speranza che la paura dello spettatore. Questo significa saper girare un film.
Lo squalo arriva alla fine
Perché per due ore sentiamo parlare dello squalo, senza mai vederlo? La risposta onesta, e poco romantica, è questa: lo squalo meccanico continuava a rompersi, e Spielberg ha potuto utilizzarlo solo nelle fasi finali delle riprese. La risposta romantica, invece, è quella che lo stesso Spielberg ha dato a distanza di anni, dimostrandosi entusiasta del risultato finale del film, che permette allo spettatore di coltivare una paura ossessiva verso “questo nemico noto e allo stesso tempo ignoto, mai visto”.
Da qui, probabilmente, il successo nel mercato estero (per noi, per esempio, che al massimo possiamo essere attaccati da un tonno): l’esotismo, il fascino verso qualcosa che non solo non abbiamo ancora visto nel film, ma che non ci appartiene, che è lontano da noi. In generale, è l’idea vincente di mostrare lo squalo soltanto alla fine, soltanto dopo averne parlato per ore, dopo averlo mostrato nelle foto, sulle illustrazioni dei manuali e dopo gli aneddoti sugli attacchi passati, quella che permette al film di vivere in una pelle immortale, che è impossibile veder invecchiare di un solo anno. Non si tratta di modernità, ma di genio, unito alla sorte dello squalo meccanico, che alla fine si è dimostrata benevola e che ha condotto il film nella miglior direzione possibile.