Live Report. The Darkness, Orion – Roma 13/11/2023. “Permission To Land” venti anni dopo
Sono passati vent’anni, eppure sembra ieri che ci recavamo al negozio di fiducia per acquistare “Permission To Land“, album di debutto dei The Darkness, che rivelò al mondo una band capace di proporre e rinnovare la proposta dei grandi nomi dell’hard rock. Era l’inizio del Terzo Millennio, le recensioni le leggevamo sui vari giornali cartacei che all’epoca potevano ancora essere acquistati in edicola, oppure sui primi siti internet specializzati. In quest’ultimo caso serviva una buona connessione da linea fissa, e non tutti avevano tale privilegio. Per loro c’erano anche gli Internet Point, però. Il chiacchiericcio tra amici e compagnie varie era ancora gettonato e i consigli si elargivano e ricevevano in egual misura guardandosi in faccia o, magari, di fronte a una pinta di birra.
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Adesso internet è alla portata di tutti, le chiacchierate si fanno tramite chat e con sempre minore frequenza fuori al pub o in piazza, i giornali cartacei sono roba da collezionisti e i negozi di dischi sono diventati sempre più rari. Il tutto in soli venti anni. E’ cambiata la società e, con essa, il modo di fruire della musica. La band dei fratelli Justin e Daniel Hawkins ha attraversato questi due decenni tra trionfi e cadute clamorose, momenti di splendore e altrettanti di profonda oscurità. I Darkness promettevano scintille ed erano considerati tra i gruppi di punta di una rinnovata scena rock (lato sensu) internazionale, ma difficilmente si può dire che le aspettative siano state rispettate appieno.
Un album di debutto da due dischi d’oro e due di platino, con tre grandi singoli di successo in grado di catapultare la band dalla realtà della provincia inglese ai maggiori palchi di tutto il mondo può essere croce e delizia per qualsiasi musicista. Pressioni altissime, pubblico sempre più esigente e produzioni sempre più importanti richiedono un prezzo elevatissimo e se è vero, come è vero, che i Nostri hanno compiuto anche dei falsi, è altresì vero che se anche oggi, nel 2023, osanniamo quella perla di album che fu “Permission To Land” è perché il lavoro della formazione britannica è invecchiato benissimo, attestandosi come uno tra i dischi più importanti del primo ventennio degli anni Duemila.
Per omaggiare l’evento più importante della loro carriera Justin e Daniel Hawkins, Frankie Poullain e Rufus Taylor (figlio del grande Roger, storico batterista dei Queen, in pianta stabile nella line up dal 2015) hanno avuto la bella idea di un tour celebrativo che, in questi giorni, ha toccato anche l’Italia.
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Eravamo presenti allo show di Roma, all’Orion Club, sold out per l’occasione. Una risposta importante, quella riservata dal pubblico capitolino alla band inglese che, come ha affermato il frontman durante il concerto, ha spinto per una data nella Capitale all’inizio esclusa dal calendario delle serate.
Puntuali sulla tabella di marcia, alle 21.10 i Darkness sono saliti sul palco dell’Orion tra applausi e cori d’incitamento. Justin Hawkins, in completo giallo shocking, è apparso subito in gran forma e, prima ancora di iniziare a cantare, ha strappato di mano alcuni cellulari ai presenti in prima fila perché – come ha ripetutamente sottolineato durante lo show – i concerti si vivono, non si filmano.
“Black Shuck” e “Get Your Hands Off My Woman” hanno aperto il set e instradato il concerto verso la giusta direzione: divertimento, hard rock a palate e sketch più o meno esilaranti. Dopo i brani due brani si è messa in moto la macchina del tempo che ci ha riportati tutti a quel 2003, cioè all’anno di debutto di “Permission To Land”.
“Growing on Me“, “The Best of Me“, “Makin’ Out” e “Givin’ Up” tutte eseguite una dietro l’altra tra riff accattivanti e pose ammiccanti di Justin, cori del pubblico e spettatori redarguiti perché rei di tenere gli occhi troppi incollati allo schermo dello smartphone anziché sul palco. Come annunciato, l’album è stato eseguito per intero, ed ogni canzone ha avuto il suo spazio e la sua dimensione all’interno dello show anche se, come era prevedibile, i boati del pubblico sono stati riservati a “Love is only a feeling“, “Friday Night“, “I Believe in a thing called love“, singoli di successo estratti dal disco. Nel mezzo c’è stato anche spazio per “Street Spirit (Fade Out)”, cover dei Radiohead, “Holding on my own” e “Stuck in a Rut” prima dei bis.
Una band con personalità e carisma da vendere, straordinaria sul palco, soprattutto grazie al suo frontman, vero mattatore dello show.
Una prestazione corale davvero di spessore con la sezione ritmica composta da Poullain e Taylor che non ha praticamente sbagliato un colpo (i due si trovano a meraviglia, si vede e si sente). Daniel Hawkins, con le sue pose alla Johnny Ramone e l’immancabile maglia dei Thin Lizzy, è degno compagno di giochi del fratello che per l’intera durata del set ha alternato la presenza da irriverente guascone a quella da rockstar primadonna e accentratrice di sguardi. Lui, chiaramente, è l’anima e il corpo della band. Magnetico sul palco, irresistibile con il microfono alla mano e ottimo musicista quando imbraccia la chitarra, ha dimostrato una volta di più perché, fin dagli esordi, è giustamente considerato uno showman a tutto tondo.
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Unica pecca dell’esibizione, se così la vogliamo chiamare, è stato il ripetersi delle troppe pause tra una canzone e l’altra. Troppo intrattenimento, troppi discorsi e troppi sketch che, oggettivamente, non hanno aggiunto nulla alla show. Anzi, se proprio , hanno palesato una necessità: quella di Justin Hawkins di riprendere fiato con estrema frequenza. Meno chiacchiere e un paio di pezzi in più avrebbero reso il concerto di ben altro livello. Ma va bene così e non vediamo l’ora di rivederli da queste parti.
Setlist
Black Shuck
Get Your Hands Off My Woman
Growing on Me
The Best of Me
Makin’ Out
Givin’ Up
Love Is Only a Feeling
Curse of the Tollund Man
Stuck in a Rut
How Dare You Call This Love?
Street Spirit (Fade Out)(Radiohead cover)
Holding My Own
Friday Night
I Believe in a Thing Called Love
I Love You 5 Times
Love on the Rocks With No Ice