L’inverno dell’anima rappresentato nel cortometraggio di Giulio Mastromauro
Il regista pugliese Giulio Mastromauro si è aggiudicato il prestigioso David di Donatello 2020 per il suo cortometraggio “Inverno”, un progetto che nasce da un’esigenza individuale che si fa narrazione autobiografica e rappresentazione collettiva.
L’etimologia della parola “inverno” deriva da un’antica radice sanscrita him- (freddo) che si ritrova nel latino him-ernum (tempus), fino all’esito più conosciuto hibernus (invernale), con l’accezione di “tempo che appartiene alla stagione gelida”. E in questa etimologia (messa in evidenza dal sottotitolo in greco χειμώνας), si condensa tutto il significato del cortometraggio. Mastromauro, in un’intervista per Artribune, ha infatti dichiarato che il corto rappresenta una stagione dell’anima a cui tutti appartengono: l’inverno e la grigia desolazione che porta con sé.
Di autobiografico, Mastromauro racconta la prematura perdita della madre attraverso la trasposizione del proprio vissuto in un luogo di silenzi, tensioni e contraddizioni: il mondo delle giostre circensi. Un mondo reale, ma anche sfuggente all’interno del quale si inserisce la storia di Timo, un bambino d’origine greca, che subisce la drammatica scomparsa della madre. Mastromauro sceglie le giostre perché nella loro gestione si concentra il sentimento di sacrificio e unità familiare, destinato a sgretolarsi con l’arrivo dell’inverno, la stagione più dura.
Con l’inverno alle porte, le giostre richiedono una manutenzione maggiore e la vita dei giostrai si fa sempre più dura e faticosa. Dei lunapark, Mastromauro – classe 1983 – ricorda la gioia, l’euforia, ma anche la nostalgia e i pregiudizi relativi ai gestori, gente spesso ritenuta nomade e priva di valori.
Sopraffatto dal duro lavoro, Timo sembra quasi voler negare l’evidente sofferenza causata dalla precoce perdita della madre, restando in balia di uno sterile confronto con la reazione del padre e dei nonni che lo circondano ogni giorno, senza curarsi delle sue impressioni. Timo è solo, alle prese con l’inverno e con sé stesso. Si trova a fronteggiare un’esperienza personale che lo metterà alla prova e che lo costringerà a crescere in maniera frettolosa e distaccata.
Missione del cortometraggio è anche quella di mettere in scena una rappresentazione del dolore ambivalente. Il dolore degli adulti, rumoroso, esasperato e quello dei bambini, spesso incompreso e silente. Un invito, dunque, a sconfiggere la solitudine attraverso l’ascolto, la comprensione e la condivisone, soprattutto del male. Un male e uno sconforto che solo chi ha vissuto la perdita di un genitore è in grado di comprendere.
E nonostante questa dimensione strettamente individuale messa a fuoco da Mastromauro, molti hanno colto l’universalità della sua rappresentazione. Quella messa in scena dal regista è, in fondo, una frattura profonda e l’inevitabile baratro all’interno del quale sprofondano le vite di persone reali, alla continua mercé di sentimenti altrettanto reali e spietati. Dalle parole del regista:
È stato il titolo a cercarmi e non è legato alla stagione in senso letterale, è una metafora di ciò che una perdita lascia dentro. L’inverno arriva e logora. Logora gli spazi e gli ambienti. All’inverno segue la primavera e quindi la rinascita e il desiderio stesso della rinascita, però inevitabilmente l’inverno lascia dei segni e questi segni una persona li porterà sempre con sé.