[L’intervista] “Monte Corno” dell’aquilano Luca Cococcetta vince il Trento Film Festival
“Monte Corno – Pareva che io fussi in aria” è il film del regista aquilano Luca Cococcetta che racconta la storica impresa di Francesco De Marchi: la scalata del Corno Grande, vetta del Gran Sasso, nel 1573.
Il documentario è stato recentemente presentato al Trento Film Festival, ottenendo il Premio del pubblico.
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Sinossi
Il 19 agosto del 1573 Francesco De Marchi (Massimo Poggio) scalò con una piccola spedizione la vetta impervia e rocciosa del Corno Grande, realizzando un’impresa epica per il suo tempo: raggiungere una vetta per la curiosità di salire quella che lui riteneva la montagna più alta d’Italia. E ne scrive la cronaca anticipando di ben 213 anni quella del Monte Bianco compiuta da Balmat e Paccard l’8 agosto del 1786, ritenuta la prima ascesa della storia dell’alpinismo.
A 450 anni dall’impresa, il film “Monte Corno – Pareva che io fussi in aria” racconta, narrato dalle stesse parole di Francesco De Marchi, la scalata, con una dettagliata ricostruzione in fiction, attraverso immagini spettacolari della salita sulla roccia calcarea del Corno Grande.
Intrecciato alla fiction, un racconto documentaristico in cui esperti e conoscitori dell’impresa, come Vincenzo Brancadoro, gli storici Stefano Ardito e Roberto Mantovani, l’alpinista Hervè Barmasse, il geologo Mario Tozzi, ci parlano, sui luoghi stessi della scalata alla vetta del Gran Sasso, della figura storica del De Marchi e dei temi da lui trattati: l’ascesa e le sue difficoltà, la misurazione della vetta e la geografia dei luoghi, lo stato del Ghiacciaio Del Calderone, i commerci di lana e pelli che avvenivano tra L’Aquila e Teramo, passando per Campo Imperatore. Protagonista assoluto è il Gran Sasso d’Italia, il massiccio montuoso più alto degli Appennini.
Ne abbiamo parlato con il regista, Luca Cococcetta.
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L’intervista
Come ha scoperto la storia di Francesco De Marchi?
Ho scoperto la storia alcuni anni fa quando alcuni amici alpinisti me ne avevano parlato, poi ho cominciato a fare delle ricerche. Questa impresa alpinistica è venuta “a galla” solo nel 1930 circa, grazie a un bollettino della sezione dell’Aquila del Cai e del Cai nazionale che lo portarono all’attenzione di tutti, perché fino ad allora era rimasto nascosto tra le pagine della cronaca di architettura militare.
Qual è stata la genesi di questo progetto?
Il racconto di questa ascesa è molto bello dal punto di vista letterario e particolarissimo perché racconta una salita alpinistica compiuta per il gusto di andare in vetta e di godere di questa esperienza, più di 200 anni prima della nascita ufficiale dell’alpinismo come lo conosciamo – la salita del Monte Bianco del 1786. Abbiamo deciso di raccontare questa cosa interessante in un documentario, che poi abbiamo sviluppato con una parte di fiction, che integrasse le interviste e lo rendesse anche bello dal punto di vista filmico, rendendo la poesia e la bellezza nella scrittura di De Marchi stesso.
Come mai ha scelto la forma documentaria?
In questa cronaca De Marchi parla di molti temi legati alla montagna: i commerci, la vita delle comunità, l’acqua, il ghiacciaio. Da ingegnere qual era, restituisce uno spaccato della vita nell’epoca. Quindi il documentario sembrava un modo naturale per raccontarlo. La fiction è venuta dopo, proprio per rendere più fruibile l’opera, che altrimenti sarebbe stata molto densa di contenuto.
Si è rivolto ad altri esperti per “Monte Corno – Pareva che io fussi in aria“?
Ho lavorato sui temi di cui Francesco De Marchi ci parlava. Per esempio, uno su tutti: la misura in profondità della neve nel ghiacciaio del calderone, quello più a sud d’Europa, declassato da qualche anno. Per questo tema abbiamo scelto ovviamente alcuni studiosi di economia del territorio e Mario Tozzi, geologo, che si occupano di cambiamenti climatici. Allo stesso modo su altri temi: il tema alpinistico l’abbiamo fatto trattare a Hervè Barmasse, che ha ripercorso una parte di questa ascesa di De Marchi, e ci parla del perché si va in montagna. Nella stessa maniera due storici, Stefano Ardito e Roberto Mantovani, ci parlano invece della vicenda biografica del personaggio e di come si svolse questa impresa nel Cinquecento. Tutto questo va a fare da contrappunto alla voce fuori campo del personaggio De Marchi.
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Come ha scelto Massimo Poggio per il ruolo di attore protagonista?
Ho scelto Massimo Poggio a parte perché ovviamente è un ottimo attore, ma anche perché sapevo che era stato sul Gran Sasso, che era andato più volte in vetta, anche con un’ascesa notturna. Quindi avevo la sensazione che potesse piacergli fare un film di questo tipo. Un film che è stato anche molto molto faticoso dal punto di vista fisico perché abbiamo dovuto girare per diversi giorni in vetta al Gran Sasso, ma gli avvicinamenti sono molto lunghi e c’è da camminare tanto perché non è immediatamente accessibile con la macchina. Insomma, lui si è divertito tantissimo, ha speso molte energie ed è stato bravissimo: siamo molto contenti della sua interpretazione, che è stata anche molto apprezzata in sala alla prima cinematografica al Trento Film Festival.
Ha riscontrato altre difficoltà nel girare un film ambientato 450 anni fa?
Principalmente le difficoltà che abbiamo affrontato erano di tipo meteorologico: dovendo girare il 99% del film in esterna, sostanzialmente tutto sopra i 2400 m, c’era sempre l’incognita del vento, della pioggia. Insomma, non è stato facile sotto questo punto di vista, ma alla fine siamo riusciti a fare tutto senza grosse difficoltà.
Cosa rappresenta la vittoria del premio del pubblico del Trento Film Festival?
È un premio bellissimo che testimonia il fatto che questo film un po’ particolare per la sezione di alpinismo – perché è un film che ha due anime, quella storica e quella alpinistica – sia stata apprezzato proprio dal pubblico. Soprattutto il fatto che abbia ricevuto attenzione in mezzo a tanti film che trattavano invece di ascese relative alle Alpi o alle catene himalayane – che sono le più gettonate nei film di questo tipo. Quindi siamo molto contenti che un film un po’ diverso, che esce un po’ dai canoni, che racconta un’epoca molto molto precedente a tutti quelli che abbiamo visto, sia stato così apprezzato dal pubblico.
Per lasciare una sua traccia De Marchi incise sul fondo della grotta una croce, tuttora visibile… oggi come possiamo lasciare il segno per riportare l’attenzione sul nostro territorio?
Certamente De Marchi ha lasciato segni sia sulla vetta sia nella grotta, uno dei due ancora visibili. Noi possiamo fare un lavoro diverso, un lavoro di racconto che rappresenta le comunità. In questi giorni, tornato dal Festival, anche grazie al premio, ho sentito una vicinanza enorme a tutto il territorio abruzzese. Mi sono reso conto che raccontare le storie dei luoghi è una cosa molto apprezzata, perché in questo modo si costruisce e si tramanda l’identità dei luoghi. Penso che questa sia la cosa più utile e più bella che possiamo fare. Ovviamente noi facciamo film, quindi questo è il nostro contributo.
Potremo vedere “Monte Corno – Pareva che io fussi in aria” in sala?
Stiamo lavorando per una distribuzione in sala, magari nel tardo autunno o comunque all’inizio del 2025. Stiamo lavorando anche per uno sfruttamento televisivo.