L’intervista a Stefano Fresi, tra jazz e pensiero poetico, tra cinema e teatro
La magia del “fermare l’ineffabile”
Stefano Fresi salirà sul palco del Teatro San Francesco di Pescina (Aq) martedì 19 dicembre nell’ambito della rassegna musicale Marsi’N Jazz ideata dal maestro e direttore artistico Franco Finucci.
Tracce di Cera è un emozionante spettacolo teatrale jazz che esplora l’evoluzione della registrazione sonora, dalla sua nascita con Thomas Edison fino agli anni ’50. Scritto e ideato da Marco Di Battista, rinomato pianista jazz, questa produzione affascinante unisce il fascino del teatro all’energia coinvolgente della musica jazz in un’esperienza che porterà il pubblico in un viaggio attraverso il tempo e la storia della registrazione audio.
Leggi anche: Sergio Cammariere, il tour passa per il Marsi’n Jazz di Avezzano
Sul palco la musica dal vivo di Marco Di Battista al piano, Luca Di Muzio alla batteria e Bruno Graziosi al contrabbasso, mentre la narrazione di Tracce di Cera sarà guidata da un toccante monologo interpretato da Stefano Fresi.
Abbiamo avuto occasione di parlarne proprio con l’attore in un’intervista esclusiva.
L’intervista a Stefano Fresi
Come nasce la collaborazione con Marco Di Battista e dunque questo spettacolo?
Nasce in realtà da una conoscenza comune: Stefano Francioni, produttore del mio spettacolo (Dioggene, n.d.r.), che mi ha chiamato per fare la voce narrante in questo spettacolo, quindi è stato abbastanza fortuito e casuale. Poi credo che abbiano apprezzato che io sia un attore che conosce anche molto bene la musica, se ne è occupato e continua a farlo. Per me unire le due cose è molto interessante.
Quella del 19 dicembre a Pescina sarà una prima assoluta che genera molta curiosità. Cosa indica il titolo “Tracce di Cera“?
Credo sia riferito alla cera su cui venivano registrati i primi dischi.
Il suo monologo darà vita a una serie di personaggi chiave nel mondo della registrazione sonora. Chi sono?
Si tratta di personaggi che hanno reso possibile tutto ciò che riguarda la magia del “fermare l’ineffabile“. La necessità di registrare infatti nasce da persone che hanno iniziato a mettere la scienza al servizio di qualcosa di cui si perde traccia nel momento in cui avviene. Thomas Alva Edison ha iniziato con lampadina, innescando tutto ciò che porterà alla nascita del cinema. Ma il primo personaggio che si incontra è quello di Édouard-Léon Scott de Martinville, colui a cui è balenata in mente l’idea di registrare. Anzi di “aspirare il suono e imprigionarlo da qualche parte”: è una roba meravigliosa perché proprio questo avrà probabilmente innescato in Edison l’idea che lo ha portato a fare le prime macchine riconducibili all’inizio della storia del cinema. Poi si arriva alla Columbia Records e alle grandi case che intuiscono quale grande affare possa essere la discografia, la registrazione.
Leggi anche: “Philadelphia” compie 30 anni: “il film sull’Aids che meritava di essere realizzato”
Poi si arriva alla Columbia Records e alle grandi case che intuiscono quale grande affare possa essere la discografia, la registrazione. A questi grandi nomi poi si accompagnerà quello del grande Berliner, l’inventore del disco di gommalacca, l’antenato del disco in vinile prima che cambiassero materiali, modalità e tecniche di registrazione e che la Columbia e la Berliner Gram-o-phone capissero che quello potesse essere un mercato. Un’invenzione straordinaria che permetteva alla musica di entrare dentro casa: un cambiamento epocale.
Il palco sarà arricchito da oggetti d’epoca e dettagli scenici per riportare il pubblico indietro nel tempo, immergendolo completamente nell’atmosfera dell’era della registrazione: come si relaziona con essi?
Penso che mi lascerò molto trasportare dalla sensibilità del momento quando arriverò a teatro: non ci sarò una vera e propria interazione studiata con una regia. Si tratta di una lettura narrativa che lascia il posto di assoluta prima posizione alla musica. Io sono un mero narratore servo di scena, che aiuta a veicolare il messaggio della musica.
Pensa che il jazz sia il genere musicale che, più di altri, si può portare a teatro?
No, assolutamente no. Credo che non esista un genere musicale, ma che l’unica grande divisione che abbia senso fare sia tra musica bella e musica brutta. Anzi il gusto è soggettivo: tra musica di alta e bassa qualità. Il genere conta poco perché io penso che possa essere straordinario assistere ad uno spettacolo con le musiche degli anni ’80, se ben suonate e ben riproposte, perché sono testimoni di un grande periodo storico. O ancora uno spettacolo in cui la musica classica la fa da padrone senza avere quella allure da concerto in auditorium che le dà questo tono altisonante, con tutti in giacca e cravatta. Quando, invece, siamo noi a pensare quella di Mozart come musica classica, ma ai tempi di Mozart era quello che per noi è la musica pop, la musica moderna del tempo che fu.
Eugenio Montale diceva che non esiste qualcosa che è poetico e qualcosa che non è poetico, esiste il modo poetico di parlare di qualsiasi cosa. Credo che questo valga anche per la musica: bisogna solo saperla presentare, vendere e regalare su un palco ma non c’è un genere. Il jazz è sicuramente perfetto per questo spettacolo perché è nato insieme alle prime registrazioni: sono figli dello stesso tempo quindi sposano bene insieme in questo caso. Ma non c’è una musica più giusta e una più sbagliata per la scena.
Lei vive la scena jazz italiana? Che tipo di musica ascolta?
Ho sposato una jazzista! (Cristiana Polegri, n.d.r.) Quindi credo di poter dire proprio di sì: mia moglie è una sassofonista, ha all’attivo parecchi dischi di jazz e lo insegna, la mia vita ne è piena. Io sono contento di non aver avuto origini jazzistiche ma classico-sinfoniche perché così ci completiamo. Insomma, casa mia è piena di tutti i tipi di musica ma conosco molto bene il jazz, l’ho studiato e mi piace tantissimo ascoltarlo in tutte le sue forme. Perché in realtà sotto questa parola si nascondono tante sfumature e sottogeneri. Una musica che potrebbe avere più spazio in Italia: cominciano a esserci jazzisti veramente bravi che spesso hanno un successo strepitoso negli Stati Uniti, in Giappone mentre qui in Italia sono sempre visti un po’ come “musica d’élite”, quando invece non lo è.
Leggi anche: [Recensione] -“Rapunzel il Musical”: gran successo al Teatro Brancaccio per la (nuova) prima con Lorella Cuccarini
Dunque il jazz ha ancora un futuro in un’epoca in cui registrare un pezzo e diffonderlo sulle piattaforme digitali diventa sempre più semplice e a portata di (quasi) tutti?
Questo è un bene fino ad un certo punto. Nel senso che qualunque cosa sia eclatante porta con sé la doppia faccia della medaglia. Perché se da una parte è vero che chiunque adesso ha molta più facilità, anche non attraverso una casa editrice, di pubblicare la propria musica online, è anche vero che proprio online abbiamo un catalogo di una mediocrità importante. Abbiamo un sacco di robaccia che viene pubblicata tranquillamente e selezionare quello che è bello e quello che non lo è diventa complicato. Però è anche vero che si saltano i diversi canali della discografia e della produzione, quella parte un po’ danarosa e anche fastidiosa della musica, per arrivare al cuore della gente senza troppi orpelli amministrativi.
Tornando allo spettacolo, in “Tracce di Cera” c’è un aspetto o un personaggio che l’ha colpita e che porterà con sé?
Proprio il primo che viene nominato: Édouard-Léon Scott de Martinville. Perché è stato sostanzialmente tra i primi a pensarci, a voler costruire questa “macchina aspira-suoni“. Ed è bellissimo perché è un pensiero poetico, di assoluta volontà di condivisione. Che senso ha registrare una cosa se poi non la fai sentire a qualcuno che, in quel giorno in cui è avvenuta, non c’era? Diciamo che è l’idea di Gutenberg trecento anni dopo ed è il precedente che porterà a far nascere il cinema per diffondere le immagini, Quando poi le cose si fonderanno, arriveremo a quello che c’è oggi.
Invece quanto c’è di Stefano Fresi in questo spettacolo?
C’è sicuramente il mio trasporto perché devo tutto a Thomas Alva Edison: se lui non avesse inventato il cinema, io sarei disoccupato! (ride, n.d.r) Devo tutto alla sua vita, alle sue invenzioni, ma anche alle sue megalomanie e ai suoi problemi, ai suoi disastri, alle non-consegne… insomma ne aveva di cose da fare, il povero Edison! Però, ecco, c’è molto amore nei confronti del veder nascere quello che oggi è la mia passione, il mio lavoro e quello che ho scelto di fare nella vita. Sai, conoscere le origini di ciò che si ama è molto bello. Come avviene per i luoghi del cuore. Di mio c’è sicuramente un senso di appartenenza: nasco dalla musica ed è la musica che mi ha portato a conoscere teatro e cinema. E c’è anche un profondissimo senso di gratitudine nei confronti di quei personaggi che oggi mi consentono di avere una discreta collezione di vinili e di poter ascoltare esecuzioni di Miles Davis o di Arturo Toscanini.
(Foto da Instagram)