L’intervista. Luciano Cannito dirige “Rocky” – il Musical: “una storia d’amore e di riscatto”
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Coreografo di fama internazionale, stimato regista di lirica e di musical e già direttore artistico di alcune delle massime istituzioni teatrali nella penisola (tra le altre, Balletto di Napoli, Balletto di Roma, Teatro “San Carlo” sempre di Napoli e Teatro “Massimo” di Palermo), Luciano Cannito è senza alcun dubbio un nome di punta nel mondo dello spettacolo italiano.
Dopo l’apprezzato debutto dello scorso ottobre a Torino, l’altroieri è andata in scena al Teatro Brancaccio di Roma la prima del suo nuovo musical Rocky, tratto dal celeberrimo film scritto e interpretato da Sylvester Stallone e prodotto dalla Fabrizio di Fiore Entertainment, che rimarrà in cartellone fino a domenica 16 febbraio.
Non ci siamo lasciati sfuggire l’occasione di scambiare quattro chiacchiere con lui a poche ore dalla prima alzata di sipario.
Ecco cosa ci ha raccontato.
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Partirei dal chiederle cosa l’ha spinta a scegliere Rocky. E, già che ci siamo, le piace il pugilato (e, se sì, perché)?
Non impazzisco per la boxe, ad essere sincero, non mi piacciono particolarmente gli sport “violenti”, però, per come la vedo io, Rocky, parlo del film, è una pellicola che parla d’altro. Di amore, di riscatto. È pieno di archetipi che toccano l’animo. In fondo, a ben guardare, è soprattutto la storia di un ragazzo che non perde l’occasione di trovare un suo riscatto personale a più livelli cimentandosi in una sfida che appare tanto, troppo più grande di lui e alla fine ce la fa a vincerla. Per tutte queste ragioni, anche non essendo un appassionato della disciplina dei guantoni, devo dire che, fin dalla prima volta che lo vidi, Rocky è diventato uno dei miei movies preferiti, ancor di più dopo che ne è stato tratto il musical di successo che ha spopolato negli Stati Uniti e in molti paesi d’Europa prima di arrivare a noi. Riuscire a ottenerne i diritti per l’edizione italiana non è stato facile, ma quando finalmente sono riuscito ad ottenerli, è stata davvero una grande soddisfazione.
Per questo musical, la sua traduzione e il suo adattamento sono stati realizzati attraverso un costante confronto con gli autori del testo originale (Thomas Meehan e Sylvester Stallone). Che esperienza è stata? Più i pro o più i contro?
Gli americani hanno un approccio al lavoro fantastico, sempre molto certosino. Quando si è trattato di valutare i miei interventi sul testo e sulla resa della storia, sono stati molto attenti prima di avallare, anche se devo dire che non ci sono mai stati problemi rispetto a quello che proponevo, anche perché le mie modifiche sono state davvero minime e hanno interessato soprattutto il finale. In ogni caso, mi sono trovato a lavorare su quella che considero una macchina perfetta, in cui il ritmo inesorabile e sempre ben bilanciato è già impresso in ogni sua singola parte. E questo, lo confesso, è un qualcosa che come regista mi ha creato un po’ di ansia, perché trovare il perfetto equilibrio per far funzionare tutto al meglio non è mai semplice se ti trovi a confrontarti con una pietra miliare del cinema di questa importanza, di questa, ormai, tradizione.
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A tal proposito: le sue sono regie dalla forte impronta cinematografica. Partendo da una pellicola “mitica” come quella di Stallone, in che modo ha coniugato questa sua caratteristica con le esigenze puramente teatrali/spettacolari?
Lavorando a stretto contatto con lo scenografo Italo Grassi, innanzitutto, nel tentativo di trovare delle soluzioni che fossero quanto più performanti possibile per mantenere sempre alto il ritmo e il mood (per me, è quello tipico del Pop degli anni Settanta dello scorso secolo) che caratterizza il film. Per riuscirci abbiamo scelto di utilizzare dei quintoni mobili in grado di essere spostati velocemente e di creare altrettanto rapidamente diversi ambienti, permettendo un montaggio di scene quanto più aderente possibile all’originale. Inutile dire che questa operazione ha rappresentato una sfida tecnica di non poco conto, che mi porta ad affermare, e con sicurezza, che questo è uno degli spettacoli tecnicamente più ostici con i quali abbia avuto a che fare, anche perché, come ho sottolineato in precedenza, mi sono sempre attenuto con un certo scrupolo alle indicazioni drammaturgiche di partenza. Speriamo di essere riusciti a trovare le sincronie giuste, di essere stato all’altezza. A Torino è andata bene, adesso speriamo di aver fortuna anche al Brancaccio. Quando cambi location ad una tua opera, le incognite sono sempre molteplici e bisogna essere reattivi per cercare di trovare subito le giuste soluzioni, i necessari adattamenti.
Nella sua ormai lunga esperienza di regista e coreografo, cosa la guida quando deve metter su un cast? In questo caso, perché ha scelto Giulia Ottonelli e Pierpaolo Pretelli per i ruoli principali?
Per la Ottonelli la risposta è semplice: la considero il “diamante” del musical italiano e, fin dal primo provino, l’ho immediatamente vista vestire i panni della mia Adriana, era perfetta a prima vista. Per quanto riguarda Pretelli, invece, a colpirmi sono state quelle che considero le sue peculiari caratteristiche da underdog, adattissime rispetto a un ruolo come quello di Rocky: viene dalla provincia (Maratea) ed è emerso con i reality che, notoriamente qua da noi, sono visti con non pochi pregiudizi dal mondo della critica dello spettacolo (pensiamo a quello che è successo a un bravo attore come Luca Argentero agli inizi). Non ha guastato, poi, il fatto, che per alcuni anni abbia praticato la boxe. In ogni caso, quando si tratta di scegliere io mi faccio sempre guidare dall’istinto e cerco sempre di capire d’acchito, a priori, il margine di crescita che un artista può avere. I loro provini, comunque, come ogni aspetto di questo mio lavoro, sono stati approvati a monte dalla produzione americana, per cui mi sento sereno rispetto alle decisioni che ho preso.
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Dal post pandemia in poi, la programmazione di musical a Roma (ma non solo) sembra aver subito una certa impennata, sia per quanto riguarda il numero di spettacoli, sia per quel che concerne l’aumento degli spettatori. Perché secondo lei? Quale differenza nota rispetto a un passato anche prossimo?
Innanzitutto perché negli ultimi anni le nostre produzioni hanno finalmente cominciato a raggiungere degli standard internazionali e per quanto riguarda il dispiegamento dei mezzi, e nella serietà delle intenzioni. Adesso si acquistano i diritti originali di certe opere, non si improvvisa più limitandosi a dei semplici “richiami” buoni forse a creare un minimo di presa ma privi di basi sostanziali. E poi perché, nell’era che viviamo, le persone, essendo sempre connesse con quello che succede nel resto del mondo e non solo qui da noi, guardano molto spesso gli originali dei musical in rete e non le si può più “ingannare” come prima con qualche prodotto di bassa manifattura. Broadway e il West End, ormai sono entrati nelle case di chiunque e non si può più barare, perché il passaparola, inteso non solo nell’accezione originaria del termine ma anche come passaparola sui social, non perdona. Il confronto genera necessità di qualità e di impegno e i risultati di questi ultimi anni, appunto, sono sotto gli occhi di tutti E poi credo che questo sia un genere molto popolare, molto adatto alle famiglie, rispetto ad altri che, per definizione e per vocazione, sono più elitari. Ma questo, e ne sono felicissimo, non ti esime più dal farlo bene e dall’utilizzare i mezzi economici e spettacolari più adatti. Non si va più al risparmio come prima e i riscontri in sensibile danno sempre più ragione a chi questo lo ha capito.
Dovessero chiederle, come sto per fare io: “Il messaggio più importante che Rocky dà, è…”, lei che risponderebbe?
“Restare in piedi, qualsiasi cosa succeda”, proprio come dice Rocky nel film.
Per concludere: sta lavorando a qualche nuovo progetto nel 2025 o si accontenta dei molteplici impegni su vari fronti ai quali già si sta dedicando?
Proprio nei prossimi giorni sarò impegnato con le audizioni per “Cantando sotto la pioggia”, che debutterà al Teatro “Alfieri” di Torino il prossimo 8 maggio.