L’intervista, Dead Cat in a Bag: il cabaret sonoro arriva in vinile
Avviso ai naviganti: Luca Swanz Andriolo è ormai da anni una figura di assoluto culto nell’ambito della musica indipendente italiana e non solo. Il respiro variegato e personalissimo delle sue composizioni lascia spesso senza parole. Come senza parole lascia We’ve been through, la sua ultima sortita discografica con i Dead Cat in A Bag, un brillante crocevia di generi e di stili in grado di catturare l’ascoltare fin dalla sua prima nota. In occasione dell’uscita in vinile di questo lavoro, che troverete disponibile da oggi in questo formato, ci siamo fatti raccontare un po’ di cose sul suo making of da questo ispirato “bardo” delle sette note nostrane.
Per molte riviste di settore italiane e non solo We’ve been through è uno dei migliori album del 2022. Ti, vi aspettavate dei riscontri così entusiastici? E, già che ci siamo, puoi raccontare ai nostri lettori la genesi della vostra ultima release e in quali esigenze creative e personali differisce rispetto alla tua produzione da solista?
Devo dire che siamo stati sempre trattati molto bene dalla critica e anche un po’ viziati. Lost Bags, il nostro esordio, ha ricevuto molti riconoscimenti che ora, quando riascolto l’album, mi paiono persino esagerati. Anche Late For a Song è andato bene, da quel punto di vista. Era anche nei Dischi del Decennio, non ricordo più dove. Con Sad Dolls and Furious Flowers abbiamo cominciato a puntare all’estero e devo dire che solo un recensore ungherese l’ha trovato un po’ deprimente. Cosa che per certi versi deve essere, trattandosi di un concept sulla depressione! We’ve Been Through è diverso.
Per quanto riguarda le nostre ispirazioni e i nostri suoni, è più sperimentale; per l’ascoltatore credo che sia più fruibile, più diretto. C’è un brano come Lost Friends, che di base è una piccola follia con un suono che potrebbe ricordare gli oRSo di Phil Spirito, ma la voce è un crooning classico affidato a Liam McKahey dei CousteuaX, il che lo rende un ibrido inusuale ma carezzevole; c’è un duetto che duetto non è, con Alessandra K. Soro e il sottoscritto, in cui le voci si alternano in una sorta di flusso di coscienza, ma la base è un blues un po’ trip hop.
C’è anche una versione di Wayfairing Stranger con tempo dispari e piglio garage, che nel ritornello diventa bluegrass tradizionale (avevo già registrato in brano in versione folk casalingo con percussioni industrial sul mio album solista). Poi c’è anche, per la prima volta, un pad di tastiere molto Badalamenti che dopo un solo di e-bow cede a un vero quartetto d’archi che porta verso i Tindersticks, per intenderci.
Insomma, per noi si tratta di novità, di voglia di fare un disco corale, per chi ascolta pare esserci molta continuità rispetto ai precedenti. I miei dischi solisti non differiscono, però in quel caso faccio tutto da solo o con altri strumentisti, se necessari. Non so tracciare una linea di demarcazione. Alcune canzoni finiscono su un disco, altre finiscono su un altro disco.
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Come è nata la collaborazione con Gianni Maroccolo per “The cat is dead” (il brano d’apertura del disco) e che cosa ha aggiunto, se qualcosa ha aggiunto, al vostro sound?
Se ascolti il volume I e il volume III di Alone, il “disco perpetuo” di Maroccolo, sentirai una voce famigliare… Avendo collaborato con lui, mi è parso bello che poi lui collaborasse con noi: avevamo questo brano, The Cat Is Dead, che è una sorta di blues un po’ beefheartiano a cui volevamo aggiungere un tocco più rock. E quel basso è talmente storico da essere una garanzia in tal senso, no?
In alcune interviste, hai dichiarato di considerarti prevalentemente un banjoista più che un polistrumentista. Quando hai scoperto questo strumento e che cosa ti ha affascinato delle sue capacità espressive rispetto ad altri strumenti? Soprattutto per ciò che riguarda l’aspetto compositivo.
Mi considero più banjoista perché il banjo è lo strumento che suono meglio e che ho studiato di più. L’ho comprato un po’ d’impulso, come ho fatto con tanti altri strumenti (casa mia è un piccolo museo, da quel punto di vista: è l’unico lusso che mi concedo). Il banjo è un cugino strambo della chitarra, può essere molto americano e insieme rivelare le sue origini africane. Per via dell’accordatura, ti costringe a ripensare molto all’armonia e poi conferisce un appeal folk a tutto, anche quando viene suonato diversamente. Io alterno l’old time style, che è persino precedente a Earl Scruggs, a una sorta di clawhammer, ma anche a uno stile simile a quello che usava talvolta Pete Seeger. Non sono per nulla filologico, diciamo. Ma il bello dei Dead Cat è che suoniamo tutti un po’ di tutto e specialmente dal vivo la cosa è divertente.
Sia con i Dead Cat In A Bag che con il tuo progetto solista sei stato in grado di dar vita a delle “creature” di meravigliosa e coraggiosa originalità nel panorama musicale nostrano. Contro cosa si scontra un autore come te in Italia e quali sono, invece, gli stimoli che trai da una situazione di partenza, in termini di ricettività e diffusione, a dir poco meno favorevole rispetto ad altri Paesi?
Questa è la domanda a cui è difficile rispondere senza diventare un po’ lamentosi e un po’ vanagloriosi. La situazione non è facile, i club hanno ripiegato molto su un indie in voga e vagamente stereotipato, per sopravvivere dopo due anni molto duri, ma già prima l’attenzione a una scena realmente indie era altalenante. Spesso ciò che viene definito così è un mainstream suonato peggio e con addentellati generazionali. Però la scena esiste, ci sono molti validi musicisti che suonano folk con prospettiva direi internazionale, più che esterofila. Quando si va all’estero, ci si rende conto che il problema principale è tutto nostrano.
Non saprei dire se e quanto la cosa mi influenzi: credo che suonerei ciò che suono in ogni caso. Per la lingua, che dire? Adesso pare che gli italiani che cantano in inglese siano stati sdoganati, no? Nel mio prossimo album di canzoni come solista (prima uscirà uno strumentale tra drone, minimalismo e harsh noise ispirato al Macbeth, posso annunciarlo!) ci sono anche brani in polacco e in tedesco. Anzi, il brano in tedesco è affidato al compianto Alain Croubalian dei Dead Brothers, un amico che mi manca molto. La sua band ha sempre alternato inglese, francese, tedesco e persino italiano! Ed era un progetto che possiamo definire di culto.
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Torniamo alla vostra ultima uscita: esiste un fil rouge che lega i testi delle vostre canzoni? Qual è l’immaginario poetico e personale dal quale traggono ispirazione?
Stranamente, come ho detto in un’intervista proprio ieri, nei testi mancano sia i riferimenti a un immaginario “americano” che a volte le composizioni potrebbero suggerire, sia l’uso dei topoi più legati a un certo maledettismo delle ore tarde. Direi che si parla molto di più di temi classici come lutti, amori finiti, insoddisfazioni personali e forse persino universali. Nulla di strettamente innovativo, ma tutto – spero – abbastanza autentico. In Sad Dolls, ad esempio, c’è un brano molto strano, con una base fondamentalmente dubstep, un violino arabeggiante e una fisarmonica “infernale”, con cantato che definirei espressionista, un po’ bargeldiano, che racconta… una crisi di panico! Parlo spesso della paura e delle strategie che persone diverse mettono in atto per farvi fronte.
Un altro brano, su quell’inquietudine del primo mattino di cui ha parlato meglio di me Sarah Kane (o che è descritta da Bergman nell’Ora del Lupo), finisce poi con una strofa di Borges. In We’ve Been Through c’è un adattamento di una poesia di Garcia Lorca sulla resa esistenziale e anche la cronaca di una passeggiata sul far della sera che è ispirata a Robert Frost (a cui ho rubato praticamente tutte le rime). Personalmente, più ancora che gli immancabili Dylan e Cohen, posso dire che il mio autore di liriche preferito è Jacques Brel.
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La vostre composizioni, e parlo per esperienza personale, hanno la capacità di rapire l’ascoltatore consegnandolo ad un immaginario “cinematografico” e picaresco. Immagino che dal vivo una delle vostre massime urgenze sia quella di creare il miglior terreno di incontro possibile con chi vi sta di fronte. Quali sono gli accorgimenti che prendete sul palco in questo senso e quanto è importante la dimensione live per trasmettere al meglio il vostro messaggio? Ah, e a proposito: sei soddisfatto della tua attività dal vivo o vorresti esibirti di più?
Vorrei esibirmi di più, ovviamente, ma soprattutto in condizioni che permettano a quello che è uno spettacolo di teatro-canzone di raggiungere meglio lo spettatore. Ho lavorato a lungo per il teatro come compositore e musicista in scena, talvolta anche come attore, e mi porto dietro quell’esperienza privilegiata. A un certo punto i Dead Cat viaggiavano con un teatrino componibile che trasformava qualunque palco in un proscenio da cabaret un po’ straniante… anche quando suonavamo in un pub!
Adesso abbiamo deciso di fare meno date, per varie ragioni di ordine organizzativo e personale, però vorremmo continuare su quella via e anzi, vagheggiamo uno spettacolo multimediale che richiederà molto tempo e impegno, ma che potrebbe darci soddisfazione. Come solista, resto quasi un busker: banjo, armonica e un po’ di sfrontatezza.
Poi collaboro con molti altri progetti. Quest’anno, ad esempio, ho partecipato al Jazz Festival di Torino (!) insieme agli Interiors, che fanno musica elettroacustica che diventa una specie di dub. Avevo registrato una voce sul loro disco, poi il direttore artistico ha pensato di fare proprio una serata congiunta e mi sono divertito molto, esplorando lidi che mi parevano molto lontani dai miei. Insomma, si suona, ma occorre essere duttili, ecco!
Tom Waits (soprattutto), Nick Cave, Mark Lanegan. Questi sono gli accostamenti che vanno per la maggiore quando si parla della tua voce. Sei contento o pensi che certi paragoni siano limitanti? Ci puoi raccontare, per quanto possibile, come è nato il tuo modo di cantare?
Sono artisti che stimo e la cui influenza è innegabile su chiunque scelga quel lato del folk, quel lato del blues e anche quel lato di una sorta di estetica in senso ampio. Hanno influenzato almeno una generazione. Però diciamo che c’è una sorta di semplificazione, probabilmente necessaria, che porta a identificare il roco con Waits, il tormentato con Cave e il tatuato con Lanegan.
E io, in effetti, appartengo a tutte e tre le categorie. Se dovessi mettere sul piatto le influenze stilistiche a livello vocale, non potrei omettere John Cale, Willy DeVille, Scott Walker o anche Shane MacGowan: è impossibile fare un brano d’impianto tradizionale senza pensare al suo approccio lirico da strillone svociato ed ebbro. Poi mi è capitato di dire: adesso vorrei fare un brano un po’ in stile Greg Brown e alla fine il risultato assomiglia di più a Steve Von Till.
In We’ve Been Through canto molto più alto che in passato, anche se la cosa non pare così evidente. Alla fine, banalmente, il mio timbro è il risultato di un reflusso gastrico mal curato! Sono tabagista, ma pure Chet Baker lo era, mantenendo una voce pulitissima. L’accostamento che ricordo con più soddisfazione è quello fatto da una spettatrice, una volta, quando aprivo per Bonnie Prince Billy: “Cantate un po’ allo stesso modo, ma a un’ottava di distanza”. In effetti, sono un po’ piagnucoloso e tremolante.
Quando i miei amici mi fanno il verso, tirano fuori una specie di Paolo Conte. Rido tantissimo, ma capisco perfettamente il perché. Credo che ogni canzone abbia la sua voce e insieme credo che un cantante non possa – a meno che non sia eclettico di natura, come Bowie – avere troppe voci, troppo diverse. Perlomeno, io non sono capace. Per il resto, be’, facciamo tante cose anche lontane dagli artisti nominati, dal momento che spaziamo tra roots e Tex-Mex, klezmer e blues, elettronica e noise. Direi che la cifra stilistica più evidente sia una certa teatralità, che non è detto che sia per forza esplosiva. Occorre far fuoco con la legna che si ha, immagino.