L’intervista. Le mille voci di Daniele Parisi al Teatro Basilica di Roma
Debutta stasera ed è in cartellone fino al 19 al Teatro Basilica di Roma l’attesissimo nuovo spettacolo di e con Daniele Parisi, “A volte Maria, a volte la pioggia”.
Non ci siamo lasciati sfuggire l’occasione di parlarne un po’ con l’istrionico attore, drammaturgo e regista romano, che dopo il
cult dello scorso anno “Io per te come un Paracarro” si prepara a stupire di nuovo pubblico che andrà a vederlo con la sua irresistibile verve tragicomica e con il singolare e insistito uso della loop station, in grado di conferire ai suoi lavori un’originalissima impronta polifonica.
Lo spettacolo è stato presentato in anteprima all’Aquila, a Spazio Rimediato.
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Puoi raccontarci un po’ la genesi di questo tuo nuovo spettacolo? È ispirato da qualcosa in particolare?
Direi che tutto ha origine dai tanti viaggi che ultimamente ho dovuto affrontare per portare in giro per l’Italia i miei spettacoli e dalle tante difficoltà di carattere tecnico, logistico ed economico che ho incontrato.
A un certo punto, mi sono chiesto se sarei stato in grado di fare un teatro senza niente: niente quinta, niente oggetti di scena. Niente, a parte una sedia. Proprio il grado zero dell’essenzialità! Così, mi ci sono seduto su quella sedia e ho cominciato a lasciarmi andare. Ed è venuto fuori quello che racconto in “A volte Maria, a volte la pioggia”.
Ancora una volta risulta centrale l’uso della loop station. Fin dove si spingerà la tua indagine sulle possibilità espressive offerte da questo mezzo e perché lo ritieni così adatto al tuo “discorso” teatrale?
Come forse saprai, prima di dedicarmi anima e corpo al teatro, per tanti anni ho suonato, da autodidatta, diversi strumenti (chitarra, pianoforte, synth) e fatto parte, suonando e cantando, di diverse band di area rock e noise. E sono sempre stato affascinato dalla vocalità in sé, innamorandomi di quella di grandi cantanti e sperimentatori come Jeff Buckley, Freddie Mercury, John De Leo e Demetrio Stratos. Da quel momento in poi, ho sviluppato una costante preoccupazione-necessità di curare l’intonazione. Dopodiché, durante gli studi all’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, ho davvero scoperto e approfondito quel gran genio che fu Carmelo Bene. E ho cominciato a concepire un modo di recitare e di fare teatro in cui l’uso della voce avesse una valenza precipua su tutti gli altri aspetti.
Quando mi metto a scrivere, l’uso della loop e delle sue possibilità “polifoniche” è alla base di tutto. Ti potrei quasi dire che un mio spettacolo è come un lungo brano arrangiato con la loop, ecco.
Sempre rimanendo in tema: ti succede mai di aver paura che un problema tecnico possa inficiare la tua performance sul
palcoscenico? Cosa succederebbe se la loop station si bloccasse?
Ma guarda che purtroppo è già successo! Eh, che dirti… In quella circostanza ho continuato senza ma era chiaro a tutti i presenti che
mancava qualcosa del mio modo di recitare. Diciamo che mi sono preoccupato di portare a casa alla meno peggio la performance, ho cercato di ripensare quello che stavo facendo come una specie di show unplugged. Però è stata davvero dura. Prego sempre che tutto vada bene!
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Nei tuoi spettacoli una delle cose che salta più all’occhio è il continuo, fluido trapasso dal tragico al comico e viceversa. Lo consideri un mero riflesso del naturale andamento delle nostre esistenze o ricorri a qualche artificio scenico per crearlo?
Non dico niente di nuovo se dico che il tragico e il comico sono le due facce della stessa medaglia, ma è bene ribadirlo sempre, è proprio così.
Per sopravvivere, ognuno di noi ha bisogno di fare dell’ironia per superare la tragedia (come d’altronde insegnano i greci da
duemilacinqucento anni). Io mi limito a mettere in scena quello che facciamo tutti nella vita di tutti i giorni, niente di più. Sono ovviamente molto contento che questa naturale fluidità venga percepita e apprezzata dallo spettatore.
Ti immagini un giorno a scrivere una pièce per qualcun altro e dirigerlo? Pensi potrà mai accadere?
Oh sì, di continuo, l’ho messo in conto. E, ad essere sinceri, ho già scritto qualcosa che aspetta di essere messa in scena da un altro o da un’altra. D’altronde bisogna anche considerare che gli anni passano e che il nostro corpo è sottoposto a un processo di decadimento fisico, dunque non sarà soltanto una scelta quanto anche una necessità per tutelare l’aspetto performativo dei miei spettacoli.
Rispetto alla tua formazione presso la “Silvio D’Amico”, quale pensi sia stato lo scarto personale più significativo che sei stato in grado di applicare nel corso della tua carriera fino ad oggi?
Penso che il fatto di aver cominciato a scrivere sia stato senza dubbio determinante nel mio modo di concepire la recitazione e il performing dopo gli anni di studio. Tra l’altro, non mi aspettavo di farlo quando ancora studiavo, nonostante prima di entrare in Accademia avessi già scritto qualcosa. Ho letto e studiato molto per riprendere a farlo e questo credo abbia influito moltissimo nel ripensare, non dico dalle fondamenta ma quasi, il mio mestiere.
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Quanto cambiano i tuoi spettacoli da una singola rappresentazione all’altra? Che ruolo gioca la reazione del pubblico sul momento?
È assolutamente fondamentale, direi. Quando sono in scena, la percezione da parte degli altri di quello che sto facendo è in grado di cambiare sul momento il mood di uno spettacolo, trasformandolo da tragico in comico e viceversa, cambiandone, oserei dire, proprio il genere. La mia è una scrittura concepita come “aperta” fin dalla sua nascita. Anche perché a me piace un teatro “alla tedesca”, con un palco basso e un rapporto di assoluta prossimità con il pubblico.
Nell’anno di “dis(grazia)” 2023, ormai quasi 2024, quale pensi possa essere il compito più importante del teatro nel raccontarci la vita?
Deve puntare alla verità, sempre e comunque, a costo di qualsiasi rischio. Bisogna essere sinceri, non barare mai con chi si ha di fronte. E questo non avviene sempre, perché spesso prevale il pensiero per certi risvolti altri (economici soprattutto) e si perde di vista il vero obiettivo. Al teatro fa male pensare alla “cassa”, deve pensare solo alla verità seppur nel suo artificio.
In conclusione: se dovessi scegliere un regista in grado più di altri di valorizzarti come attore di cinema, chi sceglieresti?
Nessun dubbio: Alessandro Aronadio. È il primo ad avermi affidato un ruolo da protagonista in “Orecchie”. Con lui girerei venti, trenta film, senza nessun problema. Lo stimo moltissimo.