L’intervista: Eugenio Finardi, una carriera senza compromessi. “Gli anni ’80 il mio periodo buio”
“Euphonia” è una suite che incorpora i brani in un “Flow”, un flusso ininterrotto che, attraversando vari stati emozionali, accompagna l’ascoltatore ad uno stato quasi trascendentale, oltre la normale sequenza di canzoni, fondendole nell’improvvisazione e nel mistero dell’enarmonia, che è la magica capacità delle note di cambiare senso e funzione a seconda della tonalità.
Il progetto che Eugenio Finardi porta in tour in queste settimane è frutto dell’intesa con due straordinari musicisti: Mirko Signorile che intesse un suo continuum spazio temporale attorno alla massa gravitazionale delle melodie in contrappunto con le traiettorie del sax di Raffaele Casarano. Il Flow si sviluppa spontaneamente sul canovaccio delle canzoni di Finardi, con qualche omaggio ai suoi autori più cari, da Battiato a Fossati.
Come, o da cosa, nasce “Euphonia”, il tour che in queste settimane porta in giro per l’Italia?
Nasce dal bisogno di una cura, fisica e mentale, conseguente al lockdown che abbiamo vissuto. Uno sbocco musicale per guarire i malesseri dello spirito causati da questo periodo. Un neurologo con cui ho parlato mi ha spiegato che l’ascolto prolungato per più di dieci minuti di un pattern, di un riff, di una strofa, di qualcosa connesso alla musica suonata, induce a un’alterazione positiva della mente, a un effetto psichedelico sul corpo umano. Ho pensato di creare questa suite, senza soluzione di continuità, con lo scopo di condurre la gente in un viaggio di consapevolezza e accudimento di se stessi. Questo avviene anche nel passaggio tra ricordi e canzoni che evocano momenti di vita, atmosfere musicali sognanti e ritmiche accese completano il tutto. E’ un qualcosa di assolutamente unico, anche abbastanza difficile da descrivere.
Per alcuni viviamo gli anni più bui dal dopoguerra: pandemia, crisi economiche, sociali e politiche, oltre al conflitto in Ucraina. Per un artista impegnato non manca il materiale di cui scrivere. E’, per lei, il periodo storico più controverso nel quale ha vissuto?
Gli anni Ottanta, per me, sono stati un decade oscura. Ho avuto vicende personali e artistiche assolutamente negative. La Milano “da bere” non è stato il mio periodo più felice né un ambiente nel quale ho vissuto bene. Dal Duemila mi sono liberato, sono uscito dalla discografia e dal sistema e mi sono dedicato ad altro, a progetti speciali che sono andati avanti fino a oggi come, appunto, Euphonia. Progetti che nascono dalla prova su strada, però. Al giorno d’oggi lavoriamo moltissimo sugli inediti, ma per me è una stupidata, quella di cantare le canzoni in studio in un ambiente diverso rispetto a quello dal vivo. Preferisco registrare e pubblicare cose che siano nate nella strada, anche lavorati dall’incontro col pubblico. Da lì è sono nati “O Fado”, “Anima Blues” e altri. Tutto quello che ho fatto fino ad oggi è al di fuori del sistema.
Lei rappresenta la vecchia guardia del cantautorato italiano, quello impegnato e di protesta che, attraverso la musica, voleva veicolare messaggi positivi e buoni propositi. Quanto c’è di quel periodo nell’Eugenio Finardi del 2023?
Al tempo c’era la voglia di lottare per una grande speranza, adesso invece sono più frustrato, mi sento più un Savonarola, uno che urla al vento. Ora è il momento di gesti che altri stanno facendo, come imbrattare il Senato (che trovo giustissimo – ride, ndr). Trovo che siano gesti innocui ma che fanno molto scalpore, ed anche quello serve. Finché non ci sarà qualcosa di tragico non credo si cambierà rotta, però. Non vedo questa grande voglia di lottare.
Pensa che la musica, e i musicisti, abbiano ancora un ruolo centrale nella società contemporanea?
Si, ma estendiamo il discorso agli artisti più in generale. Tutti loro, tutti noi siamo una coscienza collettiva e abbiamo la responsabilità di gestire l’arte e, attraverso essa, parlare alla gente. A differenza di altre forme, la musica è assoluta, non ha bisogno di traduzioni e spiegazioni. Può davvero cambiare le cose.
Viviamo anche l’era del politically correct esasperato: in che modo influisce sulla musica?
Ormai ci si censura su certi argomenti. Il tipo di libertà che sentivo negli anni Settanta non la sento più, anche perché i social danno voce a minoranze e piccoli gruppi, e quindi finisce che prendendo posizione qualcuno lo si urti sempre. E’ un periodo strano, di grande insicurezza secondo me. Abbiamo equilibri in cui io sono nato e cresciuto, nati prima di una guerra, e prima che una guerra ci toccasse da vicino come questa. Siamo stati molto fortunati e da adesso in poi non credo che sarà così. Ho poca speranza per il pianeta.
Una volta il cantautorato era proprio della sinistra, spesso anche quella radicale. Quale crede che sia, oggigiorno, il rapporto tra queste due parti?
Credo che molti siano ancora di sinistra ma non sappiano come farne parte. Dov’è la sinistra? Cosa vuol dire? Questo noto oggi. Sono parole che ormai hanno centocinquanta, duecento anni. Dobbiamo trovare un senso nuovo alla parola sinistra. Non c’è un paese di sinistra, se non qualche eccezione, ma quelli che lo sono attivamente, come lo era l’Honduras diventano sempre più casi rari. La ragionevolezza, ciò che sarebbe davvero necessario fare per salvare il pianeta, richiede un grandissimo sacrificio individuale che può sorgere solo da dentro, solo da una grande forza di volontà. La sinistra ha perso quella sua forza mistica che aveva, che in qualche modo era come una religione. A destra è più facile, si segue il capo, si abbassa la testa, e via. La sinistra non può offrire certezze perché la realtà è fatta di dubbi. Le certezze sono un pericolo gravissimo. Bisogna avere paura di questo. Ma ovviamente è meno affascinante la sinistra della destra, poiché la prima richiede il pensiero, la seconda no.
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