L’intervista. Eleonora Danco: periferie, teatro e necessità di andare fuori dagli schemi
A due giorni dall’attesissimo debutto del suo nuovo spettacolo “Benvenute stelle” al Teatro India, abbiamo avuto la fortuna di poter scambiare quattro chiacchiere con la vulcanica Eleonora Danco, attrice, drammaturga e regista (di teatro e cinema) che fin dai suoi esordi ha saputo incantare pubblico e critica grazie all’originalità del suo linguaggio spettacolare e alla sua particolarissima vena tragicomica.
Di nuovo la periferia romana, questa volta Tor Bella Monaca. Come mai ha deciso di concentrare la sua attenzione su questo quartiere e quale ritiene siano le sue specificità?
Partiamo dal presupposto che a me interessano le “estremità” e Tor Bella Monaca è un quartiere che se ne sostanzia. Se pensiamo che si trova a circa venticinque chilometri dal centro di Roma e che, a volte, passandoci, sembra di essere in un altro mondo è già un dato di fatto molto interessante. Da quelle parti puoi trovare, come è successo a me, una mamma con tre bambini che vive in una casa occupata e che ogni giorno deve inventarsi qualcosa per tirare avanti, mentre magari in altre zone della città il problema della sopravvivenza non riveste certo un carattere di urgenza.
Detto questo, è un quartiere al quale sono molto affezionata, direi quasi a livello fisico: lì ho praticamente debuttato anni fa, quando ancora non c’era il nuovo teatro. Lì ho molti amici e ho trovato dei ragazzi che compaiono in “N-Capace” (Il film d’esordio della Danco del 2014, con il quale ha ottenuto diversi premi e per il quale è stata candidata al David di Donatello come miglior regista esordiente, ndr). Tor Bella Monaca è un posto “forte”, caleidoscopico, ma soprattutto vitale. E la vitalità, cercare di catturarla rifuggendo da pigli moralistici ma cercando di rivelare solo ciò che è umano, è da sempre uno dei miei obiettivi principali. Spero di esserci riuscita con questo spettacolo, che considero una sorta di dj set in cui diversi monologhi, diverse storie, vengono “montati” per dare vita ad un’atmosfera vitale e dai toni espressionisti.
Da “Ragazze al muro” del 1995, il suo debutto da autrice, in poi, nei suoi spettacoli e nelle sue drammaturgie l’universo periferico è un tema che ha indagato più di una volta. Perché? E, dopo un lasso di tempo così importante come quello che è passato, saprebbe dirci cosa secondo lei è cambiato in certe realtà e cosa invece no?
Il tema della “periferia” è un tema importante per me, ma è solo uno di quelli che tratto. Come detto prima, a me interessa l’umano, il perenne movimento delle cose, ciò che può essere fisicamente sperimentato. Dunque, uno scibile di possibilità di indagine molto ampio e sempre da ridefinire (da cui anche l’importanza di trovare un linguaggio che sappia, di volta in volta, cogliere sempre al meglio il vortice della quotidianità). Da osservatrice di questa città, a me sembra che quello che stiamo vivendo sia un periodo storico di grande crisi, perché ci sono grandi sbilanciamenti tra ricchezza e povertà, tra centro e periferia. Sono cose sulle quali riflettere, non si può far finta di niente.
Ci può raccontare quanto è importante in un lavoro come questo la “ricerca sul campo” (per usare un termine da antropologi)? In questa circostanza specifica come ha agito?
Io le periferie le frequento da sempre. Se dovessi dire come mi sono regolata per “Benvenute stelle”, direi che ho fatto come spesso si fa quando si entra in acqua: prima con cautela e poi, una volta acquisita una certa sicurezza, prendendo il largo. Devo dire che ho incontrato persone davvero interessanti a livello umano e luoghi pieni di vita, due fattori che hanno avuto una grande importanza per quello che volevo raccontare.
Nei suoi lavori, tanto a livello verbale quanto a livello performativo, il ritmo sembra avere una valenza fondamentale. Come riesce ad ottenerlo?
Tutto prende le mosse dalla fase di scrittura, in cui le cose devono avere una loro definizione chiara sin da subito. Ci vuole quindi molta disciplina e tanto, tanto lavoro tecnico. La tecnica è molto importante perché permette di rimanere aderenti a ciò che ci si è prefissi di raggiungere e di non sbandare se si presentano degli inconvenienti in scena. Io sono per la concentrazione, non per l’improvvisazione. La concentrazione è la base di tutto, ti permette di liberarti. E di librarti.
Rimanendo in tema, si deve quindi pensare che la reazione del pubblico alle sue opere non ha una valenza in qualche modo fondante o “alterante”, giusto?
Assolutamente. I miei sono spettacoli strutturati ab origine, non presuppongono uno “scambio” che può avere in qualche modo conseguenze sulla partitura che ho ideato e che ho realizzato. Io cerco di creare delle immagini pure, delle immagini che arrivino alla pancia di chi ho davanti senza la promessa di poterlo magari rasserenare. Il compito dello spettatore è quello di ricevere un’emozione. E per darla e darla al meglio, io ho bisogno che tutto sia perfettamente definito prima.
In chiusura: per lei che ha cominciato da giovanissima tanto da attrice quanto da autrice, che “arma” può essere il teatro per i ragazzi di oggi in un mondo e una società che fanno così tanta paura?
Potentissima! Se si ha disciplina -lo ripeto, la disciplina è fondamentale- il teatro ti consente di liberare la parte più complessa di te, di andare fuori dagli schemi del “non è giusto” e del “non si fa” con i quali si viene pesantemente imbrigliati a livello di coscienza fin da bambini. Il teatro ti permette di trasformare tutto ciò che è colpa, frustrazione, in arte, in libertà. Attraverso il teatro si può accedere nel wild side, nel selvaggio, dove, con buona probabilità, si trova il meglio di ognuno di noi e in cui la nostra capacità di osservare quello che ci circonda funziona davvero al meglio. E, per di più, ci permette anche di prendere in giro certi assiomi, di smontarli una volta per tutte!
Foto: Alice De Luca