L’intervista. Elena Gigliotti e il debutto sul grande schermo con “L’invenzione della neve”
Struggente madre e donna al bivio nel film indipendente “L’invenzione della neve”, diretto da Vittorio Moroni (da qualche tempo nelle sale di diverse città italiane e da tre settimane in cartellone al Cinema Barberini di Roma), Elena Gigliotti ha debuttato sul grande schermo con una prova attoriale di raro valore, dopo una (ormai) lunga carriera a teatro. Ci siamo fatti raccontare come è andata in una chiacchierata telefonica.
Il primo ruolo da protagonista al cinema: la nostra chiacchierata non può che partire da questa tua nuova esperienza. Sei già riuscita a fare dei bilanci? Da ripetere, se ci sarà la possibilità?
Ancora troppo frastornata, stupita, incredula, per i bilanci. Anche spaventata. Non avevo mai sperimentato il protagonismo. E la parola “protagonista”, in fondo, non la amo per una serie di motivi. Intanto, ho avuto accanto dei professionisti di altissimo livello che hanno dato vita a personaggi complessi, sfaccettati. Il viaggio di Carmen non poteva compiersi senza l’incontro con l’altro, ma è un concetto difficile da trasmettere…risulta spesso altruista, mentre è il centro del mio modo di intendere il lavoro, e anche del regista. Non la amo, però, anche perché in teatro mi hanno sempre insegnato che non esistono esseri umani di serie A e di serie B: tutti sono incredibilmente degni di essere rappresentati con la massima cura. In ogni caso… da ripetere, sì. Confrontarmi con un ruolo così importante ha decisamente cambiato il mio rapporto con l’idea di fare il cinema: non è più soltanto un’idea.
La tua Carmen è una sorta di “esiliata” dalla società cosiddetta civile. Dal punto di vista attoriale, come hai lavorato per trovare il personaggio, i tempi di recitazione e la fisicità giusti per essere così dolorosamente credibile? E qual è stato il confronto che si è instaurato con Moroni per raggiungere l’obiettivo?
Tutto è partito in modo non convenzionale: provini della durata di quasi 4 h. Moroni è un regista di cui stimo, in assoluto, l’intelligenza, il desiderio di correre rischi, l’ossessione di scavare nel profondo. Per fare tutto questo, ha anche accettato che noi attori iniziassimo a saperne più di lui, ma non ho mai creduto di saperne più di lui, perché questo film è suo, è talmente suo che non ha avuto paura di perderne il controllo. Per questo si è avvalso della collaborazione di un actor’s coach (Rosa Morelli) che ci ha seguiti per tutto il processo di preparazione e sul set. Abbiamo lavorato in sessioni individuali, mettendo a disposizione con estrema fiducia il nostro immaginario e le nostre esperienze umane e artistiche. La sceneggiatura è arrivata in modo graduale, non ho subito avuto una visione complessiva della storia. Ho scritto un diario di circa 200 pagine, con all’interno musiche, confessioni, sogni, immagini, riferimenti (film, storie personali, proposte di costumi, trucco, acconciature capelli…). Inoltre Carmen…esiste davvero. Ma anche lei è entrata nel mio bagaglio senza prendere il sopravvento: in Carmen sono passate donne, uomini, bambini. E anche animali. Lo studio sulla tigre è stato costante.
Sempre a proposito di fisicità: in che modo è cambiato il tuo rapporto con lo spazio passando dal palcoscenico all’inquadratura? Hai dovuto in una qualche misura ridefinire completamente questo aspetto o no?
Ne ero terrorizzata. Ho avuto sempre un rapporto complesso con la mia fisicità in video. E il teatro, da questo punto di vista, è sempre stato terapeutico. Sul palco posso essere grande e bellissima. Se qualcuno non lo pensa, è già accaduto, impresso o forse dimenticato. Ma è passato, e resterà per sempre, ma in una sensazione, in un ricordo. Il cinema invece permane, è visivamente indelebile. Questo pensiero non mi faceva dormire la notte, ed è restato vivo sino all’uscita del film, quando ho finalmente conosciuto Elena sul grande schermo. Nonostante questo tremendo pensiero, sul set non ho mai percepito l’invadenza della macchina da presa: operatore e fonico danzavano invisibili.
Non mi è mai stato chiesto di fare poco o meno, merito del regista e, in fondo, anche della mia formazione: la Scuola del Teatro Stabile di Genova ha sempre amato profondamente il cinema. Educa alla verità, all’accadimento. È una scuola che lavora per sottrazione, per il godimento per l’invisibile. Massimo Mesciulam e Anna Laura Messeri offrivano visioni diverse e complementari, sempre lungimiranti. Due attori, registi e maestri. Il lavoro con Valerio Binasco negli anni, poi, è stato un percorso di ricerca espressiva sempre nella medesima direzione: ho visto grandi attori e attrici scambiarsi sguardi impercettibili e potentissimi, da scuotere anche le ultime file. Esperienze per me indimenticabili.
La pellicola, considerando anche i ruoli e le funzioni narrative degli altri personaggi, potrebbe essere forse interpretata una riflessione a tutto tondo sulla condizione femminile, oltre che sulla difficoltà di creare e mantenere unita una famiglia. Se è così, che messaggio vorrebbe far passare secondo te? E che tipo di urgenza comunicativa è stata quella che più ti animato nel corso delle riprese?
Mi piace definirla in diversi modi: innanzitutto un’indagine sul femminile che riguarda allo stesso modo sia gli uomini che le donne, perché il femminile è una postura, un modo di stare al mondo, ancora sconosciuto e misterioso. Nello specifico, un’indagine sulla maternità. E anche in questo caso sarò scomoda: ho incontrato dei padri nella stessa condizione di Carmen, bloccati in un protocollo, in un verbale da inviare a un giudice, in un ufficio in cui passare del tempo “protetto” con i propri figli.
Con questo non voglio assolutamente giustificare le scelte sbagliate di alcuni genitori o mettere in discussione il lavoro di professionisti del settore che hanno il compito di valutare situazioni disperate e pericolose. Voglio dire, però, che ogni essere umano è diverso da un altro, e che non c’è protocollo che tenga: bisogna esercitare l’attenzione verso gli invisibili, che sono tanti, troppi. Il film non vuole lanciare un messaggio: chiede di sospendere il giudizio e di guardare cosa succede in alcuni posti dove non siamo stati mai, dove non vorremmo mai trovarci. Ma domani, potrebbe toccare a noi. L’urgenza che mi ha animato è stata un grido costante contro la solitudine, contro l’ingiustizia percepita, contro l’indifferenza. Ho imparato a guardare diversamente gli altri dopo aver conosciuto Carmen. A vedere di più, a giudicare meno.
“L’invenzione della neve” del titolo, alla luce di tutto quello che ci viene raccontato dall’inizio alla fine, è? Ci daresti una tua interpretazione, provando magari anche a spiegarci, dal tuo punto di vista, le intenzioni del regista? Che idea ti sei fatta, a posteriori, a quest’ultimo riguardo?
“L’invenzione della neve” significa, per me, credere all’impossibile. La neve in un giorno di sole è l’impossibile, che il giorno sia lieto o cupo. L’invenzione della neve è lo sforzo immane di restare al mondo quando il mondo fa di tutto per cancellarti. “E se un mondo per noi non esiste, ne inventeremo un altro, dove nevica col sole…”. È una favola che Carmen continua a raccontare anche quando nessuno più le crede. Ma lei ci crede così tanto che alla fine accade.
È un luogo in cui nascondersi, da tutti e da tutto, una condizione dell’anima. Moroni mi ha parlato poco del significato del titolo o di alcune parole chiave che ritornano sempre nel film, non ama esplicitare troppo, soprattutto quando si serve dei simboli e della magia, aspetti peculiari della sua poetica. Non ce n’è stato bisogno, ci siamo fidati delle suggestioni, delle vibrazioni che emanavano. Ha sempre parlato, però, di due film: un film che racconta come il mondo vede Carmen, e un film che scorre accanto, che è il mondo interiore di Carmen, in cui certamente nevica in un giorno di sole. Basta solo volerlo, inventarlo.
Sei reduce da una recente esperienza di regia con “Madre Coraggio” di Brecht per il Teatro di Genova? Ti proponessero di lavorare dietro una macchina da presa, accetteresti? E che director saresti? Te lo immagini un “cinema per attori”, venendo tu dalla scena?
Dovrei pensarci, ma oggi direi di no. Fare un film è un altro lavoro, richiede delle competenze specifiche che mi sembrano difficilissime e anche -posso dirlo? -noiose per il mio ritmo creativo. Inoltre, non ho mai amato la bulimia artistica (“Faccio regia, recito nel mio film e quasi quasi faccio anche costumi e scene…”). Penso che sia bellissimo dividere la torta in tante parti, perché oltre ad essere creativamente stimolante è anche un favore che facciamo al settore: lasciare spazio a chi ha studiato per farlo è giusto, e non soltanto perché è logico, ma anche perché è etico. Quando un artista vuole fare tutto, a mio avviso, è spinto da un motore isterico: che sia di natura artistica o economica, poco importa. Naturalmente, potrei cambiare idea. Ma sicuramente dovrei studiare moltissimo per imparare a farlo.
In chiusura: da quel che ho letto, la Carmen che vediamo sullo schermo è ispirata ad una persona vera che ancora non hai avuto modo di conoscere. Cosa gli dirai quando accadrà (se accadrà, naturalmente)? E cosa direbbe lei a te (meglio: cosa ti piacerebbe ti dicesse)?
Se avrò modo di conoscerla, mi scuserò con lei per essere nient’altro che un’attrice. Mi piacerebbe ottenere il suo perdono. E quello di tutte le Carmen dell’universo che abbiamo sperato di raccontare. Se ho davvero imparato a conoscerle, in cuor loro mi perdoneranno, lo so. Ma dopo avermi finalmente trattata come tutti i personaggi della storia. Cosa che, anche per solidarietà nei confronti dei miei colleghi, merito!
Foto: Dario Aita presso Hotel Valadier.
Make up artist: Francesca Calaresu