[L’intervista] Black Snake Moan presenta “Lost in time”: un album tra folk, psichedelia e blues
Black Snake Moan è il progetto attraverso il quale Marco Contestabile da Tarquinia si è fatto conoscere in questi ultimi anni, grazie ad una capillare attività live lungo tutto lo Stivale, ma, soprattutto, in virtù di una qualità e di un’originalità musicale davvero notevole, confermata, anzi, resa ancora più evidente (e piacevole) dalla sua ultima sortita discografica, “Lost in time”, disponibile da poco sul mercato italiano e internazionale e già assai ben recensito su molte riviste e siti di settore, che ne hanno, giustamente, lodato la notevole ispirazione e l’ampio respiro stilistico, caratterizzato da una sintesi tra folk, psichedelia e blues davvero molto personale e ipnotica.
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Non ci siamo lasciati sfuggire quindi l’occasione di fare due chiacchiere con lui e di farci raccontare qualcosa sul disco che, con ragionevole certezza, verrà inserito tra le proposte più interessanti nel 2024 “alternativo”.
L’intervista
Ciao Marco, puoi raccontarci innanzitutto dove hai trovato il tempo di scrivere questo nuovo album, visto che sei perennemente impegnato dal vivo? Scherzi a parte, parlaci del making of di “Lost in Time” e di come sono cambiate le cose rispetto al tuo “Phantasmagoria” del 2019, ma anche rispetto ai tuoi ultimi due singoli dello scorso anno e del 2022 (“Fire& What You See” e “Revelation & Vision”).
Ciao Domenico, grazie per dedicarmi questa intervista.
“Lost in Time” racchiude i temi della trasformazione personale, dell’adattabilità e dei continui cambiamenti nella propria vita sospesi nel tempo e nello spazio; è il frutto di lunghe sessioni di registrazione nel mio home studio iniziate durante il periodo del lockdown e concluse a fine 2023; avevo bisogno di nuovi stimoli e l’inizio di questa evoluzione è nato con la registrazione di “Revelation & Vision” – “Fire & What You See” , i doppi singoli che hanno anticipato questa nuova dimensione sonora sviluppata e raffinata nel nuovo album. Rispetto a “Phantasmagoria”, “Lost in Time” è un album di diverso respiro, articolato da un nuovo metodo di scrittura, sperimentazione di suoni e di arrangiamenti a differenza dei precedenti lavori più scarni e minimali e concettuali. È stato uno step significativo lavorare in un nuovo studio presso Happenstance Studio Recording di Marco Degli Esposti (Carbonarola, Mantova) – dove ho rivalutato la mia modalità di scrittura e di visione della mia musica, grazie al sapiente lavoro, sensibilità e collaborazione di Marco Degli Esposti, con il quale ho trascorso intere giornate su ogni singolo suono dei brani; è stata una grande esperienza, umana e artistica.
Il passaggio da La Tempesta ad Area Pirata Records (e all’americana Echodelick per il mercato internazionale) come è nato? E cosa ti aspetti che faccia (che facciano) la nuova label per la promozione del disco?
La collaborazione con Area Pirata Records ed Echodelick Records è nata dalla mia volontà di cambiare squadra e confrontarmi con altre etichette di settore che seguivo da tempo e che volevo rappresentassero la mia attitudine e il mio stile musicale. Ho proposto ad entrambe il nuovo album, che hanno accolto ed apprezzato subito fin dal primo ascolto; hanno accettato il mio suggerimento di stampare in due edizioni differenti il vinile così da avere una loro edizione dedicata.
Credo fermamente nella determinazione e nella passione di etichette indipendenti che si mettono in gioco, dando spazio a un genere alternativo come il mio; la mia aspettativa è di riuscire a diffondere il più possibile questa mia nuova fatica in cui crediamo molto, di sostenerlo al meglio dal vivo e di distribuirlo in modo capillare in tutto il mondo.
Leggendo i testi delle tue canzoni, ci si accorge di quanto la grande capacità evocativa delle tue composizioni riposi principalmente sul fattore strumentale, visto che sono molto coincisi e si fondano- perlomeno per quello che ho potuto intendere io- più che altro su associazioni sensoriali e visive.
Ti senti un po’ una mosca bianca nel panorama “parolaio” della musica indipendente e mainstream italiana?
Qual è la tua posizione sul corretto bilanciamento (definiamolo così) musica-parole?
Mi piace considerare la mia musica come evocazione sonora di immagini e visioni, percorsi onirici tra realtà e fantasia; scrivo spesso con analogie e metafore che seguono il linguaggio sonoro dedicato alla proiezione di ricordi del passato, sogni e sceneggiature, come se fosse un film, un viaggio.
Alcuni brani di “Lost in Time”, a differenza di quanto accaduto nei precedenti lavori, sono nati da un testo, da una frase o da un concetto che volevo esaltare, immagini e paesaggi che mi hanno ispirato, o da suoni che hanno aperto nuove dimensioni.
Il processo creativo dietro questo album ha segnato una vera e propria rinascita per il mio spirito ed ha fornito la risposta a molte domande che mi ponevo come persona. “Lost in Time” mi ha fatto riconquistare dei sentimenti che non provavo da tempo, che reputavo molto difficili da rivivere nuovamente.
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Avevo un forte senso di urgenza. La cosa più importante per me è avere una propria identità artistica, quella che consente, quando si sente un suono, di collegarlo immediatamente al musicista che lo crea. Ho sempre cercato di scrivere musica per me stesso e non ho mai avuto l’aspirazione di sentirmi collocato o di reputarmi “una mosca bianca del panorama italiano”, poiché non seguo alcuna tendenza e non ho il pensiero fisso di piacere a tutti; sicuramente non faccio parte del panorama mainstream ma underground, perché so che il mio pubblico, in un certo senso, per la maggior parte, è sensibile e dedito a certe sonorità che mi rappresentano.
Il corretto bilanciamento tra musica e parole a mio parere, almeno nel mio mondo, ha senso solo per ciò che voglio trasmettere, e lascio molto spazio all’immaginazione, poiché reputo il rock’n’roll un piacevole mistero.
Cerco di fondere i due aspetti in un unico spettro sonoro, perché, per me, seguono un andamento ed un flusso mantrico, ciclico.
Nella bellissima “Sunrise”, hai beneficiato di un guest davvero speciale, quello di Roberto Dellera (Afterhours, The Winstons). Come è nata questa collaborazione e che cosa ha aggiunto in termini di sfumature al pezzo?
Sono molto felice della collaborazione con Roberto Dellera perché, oltre ad essere uno dei miei artisti italiani preferiti, connesso al mio mondo, è riuscito a chiudere il cerchio del brano e a valorizzarlo, grazie alla sua forte personalità e alla sua sensibilità. La nostra partnership è nata nell’estate del 2022, quando lo invitai a suonare ad una rassegna estiva che avevo organizzato. Rimase a casa mia per un po’ di giorni; gli feci ascoltare le demo del mio nuovo album e gli proposi di scegliere una canzone e lui optò “Sunrise”, uno dei miei brani preferiti.
Nel giro di una notte inserì il giro pulsante di basso e la sua calda voce nella seconda strofa e nei ritornelli, usando sempre la prima o la seconda take. Fantastico. È stata un’esperienza piacevole, che mi ha permesso di riflettere su molti aspetti; sono grato della possibilità di condividere le mie visioni con altri artisti, la considero una specie di magia.
Nei solchi di questo disco, si respirano ancora più “sentori” rispetto alle tue sortite discografiche precedenti. So che non è mai facile, né piacevole, spesso, “etichettare” la propria musica, ma, ad oggi, come definiresti la proposta di Blake Snake Moan? E come sei riuscito ad articolare un mosaico così composito e particolare per il nostro Paese, anche tenendo presente che la maggior parte dei ragazzi della tua età (Marco è nato nel 1992, ndr) non ha mai neanche lontanamente approcciato con certe sonorità?
In “Lost in Time” c’è una ispirazione artistica e stilistica ben precisa che si può rintracciare nei sottogeneri del folk-psichedelia e del rock-blues, quelli che poi mi hanno introdotto alla musica, se proprio dovessi citarne due in particolare.
Avevo voglia di comporre un album da ascoltare dall’inizio alla fine, con cambi di scenari e che suggerisse sensazioni diverse in grado di rappresentare meglio certo mio vissuto; la musica che stavo ascoltando, come il 60’s folk inglese ed americano, il rock psichedelico anni ‘60 più “compromesso” con l’oriente e la neo-psichedelia, mi ha diretto verso una strada che sentivo di percorrere con sincerità e naturalezza. L’altro elemento che mi ha spinto a realizzare questo album è il puro atto di suonare nel mio studio, dove ho catturato tutte queste sensazioni, scegliendo pian piano ogni “emotività” racchiusa in una canzone, in una linea vocale, in uno strumento. Il tema della perdita, lo scorrere dei giorni, l’amore, il dolore, sono una riconoscenza, una vera gratitudine, ed è forse la cosa più bella che può e poteva accadermi, donandomi la mia personale visione del tempo e allo spazio.
L’approccio a determinate sonorità è collegato principalmente a una personale vocazione per questa tipologia di musica: credo sia un fattore di sensibilità e di connessione. Sento il bisogno di suonare in questo modo, di ascoltare la musica che nutre la mia anima, sviluppare e rafforzare la mia determinazione; ho iniziato a imbracciare gli strumenti dopo aver visto Woodstock ’69, all’età di 16 anni; mi sento custode di una determinata attitudine e la vivo a mio modo, in questo presente.
Il tuo progetto, dal vivo, “cammina” tranquillamente come one man band o come duo in coppia con Matteo Lattanzi (io ti ho visto la prima volta con questa formazione), però questo “Lost in Time” mi dà l’idea di aver bisogno di una qualche collaborazione in più per essere riproposto senza perdere in densità e impatto. Stai già pianificando qualche soluzione per le date che lo promuoveranno?
E, a proposito, proseguirai a esibirti con grande sistematicità come negli ultimi anni?
Black Snake Moan è nato come progetto solista “one man band”, ma per le ultime produzioni ho deciso di integrare la formazione con un secondo polistrumentista, mantenendo la stessa dimensione sonora, aggiungendo altri strumenti presenti nell’album al fine di valorizzarne il messaggio minimale con maggiore intensità e sfumature timbriche: quello che fanno, appunto, la seconda chitarra o le tastiere suonate dal vivo da Matteo Lattanzi.
Mi risulta ancora difficile rispondere alle domande riguardanti la “mancanze di strumenti”, perché è semplicemente la volontà di suonare e concentrare le energie su alcuni elementi rispetto ad altri che mi guida nella definizione di un linguaggio performante.
In questo momento, manterrò la formazione in duo, poiché abbiamo trovato una soluzione tecnica e logistica che ci permette di valorizzare molto bene a mio parere la nuova dimensione live del nuovo album; suoneremo una nuova scaletta che seguirà tutto il mio percorso discografico, arrangiando anche brani mai suonati in precedenza. Prossimamente, valuterò la possibilità di inserire altri componenti nel progetto, fino a raggiungere una nuova formazione; per ora sono molto soddisfatto di quello che riusciamo a fare in due. Abbiamo in programma un tour estivo ed uno invernale che è in fase di allestimento e che annunceremo molto presto; si preannuncia un anno molto intenso e ricco di sorprese.
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Avendo acquistato il tuo “Phantasmagoria” dalle tue stesse mani dopo un bellissimo live al Glitch, mi viene da farti una domanda: perché, secondo te, in Italia si è ormai radicata la convinzione che il “vecchio” supporto fisico alla musica (cd, vinile) sia pressoché inutile?
E ti sei fatto un’idea su come si possa invece rilanciare un aspetto importante dell’industria discografica musicale come quello del “prodotto” che il fan può portare a casa e toccare fisicamente?
Sono del parere che il supporto musicale fisico sia importantissimo!
Ho notato che in questi ultimi anni il vinile è tornato in voga; sarò di parte perché, oltre ad essere un appassionato e collezionista di vinili che ascolto quotidianamente, credo fermamente nella necessità che la musica si diffonda attraverso un supporto, soprattutto in questo periodo, in cui regna in modo quasi incontrastato lo streaming.
La musica registrata su supporto fisico è anche la testimonianza della fedeltà dei fan verso i propri artisti preferiti, come farne a meno?
Il disco è parte del lavoro di una squadra e costituisce una fondamentale leva economica del progetto.
Per un artista in tour, avere un disco da vendere è un modo non solo di ottenere supporto economico, ma rappresenta anche la possibilità di avere un contatto diretto con i suoi fan e dare senso all’esperienza vissuta con il live: Non riuscirei mai a pensare ad un mondo senza dischi e privo dello scambio interpersonale che essi veicolano: è come se, in questa epoca social, si eliminasse per qualche strana ragione la foto di un evento che ci ha emozionato. Che senso avrebbe? Il vinile, poi, sta diventando sempre di più un gadget esclusivo, in edizione limitata: basti pensare alle differenti stampe alternative o colorate o di packaging di certi lavori. Già questo, in qualche modo, conferisce valore, esclusività e importanza al prodotto nel suo insieme, non solo alla musica che contiene (e anche per questa ragione ho voluto stampare in due edizioni differenti il mio ultimo ellepì, così da permettere al mio pubblico di scegliere la versione preferita e favorirne una diffusione più ricercata sul mercato).
La mia idea in materia, comunque, è molto vicina a quella di Jack White, il quale ha lanciato un appello alle principali etichette discografiche del mondo, chiedendo a gran voce di costruire i propri impianti di stampa di vinili (come ha fatto lui con la sua etichetta Third Man Records che ho avuto modo di visitare a Nashville) o di supportare le piccole etichette per non farle chiudere, perché sono in perenne difficoltà sia tempistica che logistica.
I dischi in vinile sono esplosi nell’ultimo decennio e la domanda è alta. Le labels indipendenti sono costantemente messe da parte, poiché molte fabbriche sono oberate a causa del monopolio commerciale delle major, quindi è sempre più costoso e lungo il processo di stampa ed il consequenziale arrivo dei dischi per la vendita.
Il rilancio del vinile, rispetto al cd, è sicuramente basato sulla qualità del prodotto, rendendolo un gadget promozionale che racchiude bonus tracks, foto, poster e materiale inedito esclusivo. E spero fermamente che in Italia si possa trovare una soluzione più funzionale e che si diffonda sempre più questa attitudine di supportare l’artista acquistando il disco e godere del suo “prodotto fisico”.
Essendo tu un polistrumentista anche in questo album hai fatto tutto da solo (con la già citata eccezione di “Sunrise”), suonando tutti gli strumenti, oltre ad occuparti delle parti cantate.
Che tipo di “allenamento” segui per riuscire a mantenere un buon livello esecutivo con tutti e qual è quello con il quale fatichi, rispettivamente, di più e di meno? Ah, già che ci siamo, quando hai cominciato?
Ho iniziato a cantare e successivamente a suonare all’età di 16/17 anni la batteria; la volontà di scrivere canzoni mi ha portato inevitabilmente ad approcciarmi alla chitarra e a cominciare con essa il percorso di songwriting.
Non ho una tipologia particolare di allenamento per mantenere un livello esecutivo. Diciamo che mi limito a suonare tutti i giorni nel mio studio.
Ho sviluppato un mio metodo di lavoro, quotidiano e costante, sia sulla parte strumentale che per quanto concerne scrittura.
Tutti i giorni suono le mie chitarre e gli altri strumenti che ho a disposizione, scrivo e registro idee. Cerco di tenermi sempre in connessione con la mia creatività. Ci sono giorni molto produttivi e ricchi di idee ed altri meno entusiasmanti, ma questo fa parte del lavoro e della mia forma di auto-ascolto, è la celebrazione delle mie sensazioni, è essenziale per me fare qualcosa che sia naturale e sincera.
Credo di faticare di più sulla parte degli arrangiamenti, nel trovare soluzioni alternative su più brani e nello scegliere quelle che mi portano “altrove”; per me è il lavoro più difficile è scegliere tutta la strumentazione da usare, avevo molte idee che pian piano hanno preso forma inserendo uno strumento dopo l’altro prima di svilupparsi completamente.
Per me la musica è meditazione, è gratitudine alla vita e a ciò che mi riserva l’universo. Cerco di migliorare continuamente, imparando dai miei limiti.
Un’ultima, doverosa domanda: questo viaggio cominciato da Tarquinia (a proposito, sei legato alla tua cittadina di origine?) ormai un bel po’ di anni fa dove pensi che ti porterà a breve? Soprattutto dove vuoi che ti porti, come uomo prima ancora che come artista?
Sono molto legato alla mia terra d’origine, Tarquinia, perché mi ha sempre ricondotto alla riflessione del modo in cui vivo la mia vita, un’esplorazione contemplativa della ricerca di conforto, della sete di trasformazione e del potere duraturo della natura, della storia, dei miei luoghi della memoria; Tarquinia mi dona una personale guida emotiva e quando sono a casa trovo me stesso, il mio linguaggio, la volontà di mettere a fuoco un messaggio, di esprimere e raccontare le mie esperienze e la mia sensibilità.
Non è facile da spiegare, ma provo un senso di libertà e di abbandono nella musica e nella scrittura, sento di seguire il flusso ed il mio istinto; da lì nasce la vocazione per determinati “canali” che si aprono come delle piccole finestre di ambientazioni e scenari che la mia cittadina mi regala.
Spero che la mia musica mi porterà sempre più avanti, oltrepassando ogni mio limite, sento che, come ora, anche in futuro costituirà la giusta chiave di lettura del mio spirito, che mi aiuterà a crescere come uomo. Non vedo l’ora di rimettermi in viaggio e di tornare a esibirmi dal vivo, perché è quella la dimensione nella quale i miei sogni si realizzano davvero e il mio lavoro, al quale sono molto devoto, acquisisce senso, diventa la mia “missione”; ho imparato molte cose da quando ho iniziato a suonare, e dal momento in cui ho realizzato che anche il mio spirito stava mutando grazie a questo, ho avuto modo di crescere e di formarmi, di maturare come artista ma soprattutto come persona; vivo il fatto di essere un musicista come una grande opportunità di crescita e di ricongiungimento con il proprio essere più profondo, come un nuovo cammino verso luoghi diversi, visitando i quali si acquisisce più sicurezza in se stessi; mi sento privilegiato a fare questo mestiere e immensamente grato alla musica che mi guida nella mia vita.
Spero possa sempre portarmi in qualche altrove!