[L’intervista] Alessandro Benvenuti: “Sempre alla ricerca di nuove forme di comicità”
Arriva sul palco del Castello Orsini di Avezzano, Alessandro Benvenuti con “Pillole di me” (produzione Seven Cults), in scena venerdì 22 marzo alle ore 21.
“Si tratta di robe comiche, un po’ recitate, un po’ lette, per raccontare a quelle orecchie che vorranno ascoltarmi, il mio divertimento nel vivere una vita sul filo di una comicità condensata in pillole salvifiche che proteggono il cervello e sua cugina Anima, dal brutto che l’esistenza ogni giorno ci propone con sadico entusiasmo, senza che nessuno le abbia minimamente chiesto niente” – spiega Alessandro Benvenuti.
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L’intervista
In scena il 22 marzo “Pillole di me” nella stagione del Teatro OFF di Avezzano. Come nasce questo spettacolo?
Nasce dal desiderio di alcuni amici, direttori artistici di teatro, che mi chiedevano qualche cosa di diverso rispetto a spettacoli che avevo già fatto nei loro spazi. Mi è venuta quest’idea, di mettere insieme un po’ di cavalli di battaglia tratti da alcuni spettacoli e farne una specie di recital che condensasse queste pillole di comicità, questi momenti, questi monologhi più o meno lunghi fortemente comici – anche se magari facevano parte di spettacoli più strutturati – o che avevano un andamento di racconto, in cui la comicità non era l’elemento principale insomma. È stata una buona idea perché è uno spettacolo molto “agile”: uno spettacolo che puoi fare dappertutto, soprattutto in spazi piccoli.
Si tratta di monologhi che vanno dal 1994 fino al 2020, che abbracciano un arco di tempo che va dagli anni Sessanta fino alla pandemia. Quindi è anche un racconto dell’Italia nel tempo che scrissi durante la pandemia e che porto in giro già da quattro anni.
Sono tutti brani che si snodano uno dietro l’altro, senza una logica precisa se non quella di cercare di divertire il pubblico attraverso personaggi e storie una diversa dall’altra. Sono piccoli monologhi, appunto pillole il cui minimo comun denominatore è proprio la comicità.
Pillole di una carriera eclettica: lei è attore, autore, regista, direttore artistico…cosa la rappresenta di più?
Diciamo che sono complementari, anche se essere direttore artistico mi fa un enorme piacere perché posso dare lavoro, quindi mi sento quasi un angelo da quel punto di vista. Io sono un autore: sostanzialmente scrivo per dare un senso alla mia vita, per conoscermi, per stimolarmi quindi forse essere autore è la cosa più importante per me. Mi piace molto fare il regista perché provo affetto verso i miei colleghi e l’idea di poter aiutare un collega conoscendo le problematiche e le fragilità che noi abbiamo, in quanto anch’io sono un attore quindi so bene quali sono le fragilità di un attore. Aiutare così gli altri a tirar fuori il talento che uno ha dentro di sé, è una cosa importante. Infine faccio l’attore però diciamo che è l’ultima cosa: se ci sono delle cose interessanti da recitare, sì mi piace molto, ma pensare di fare l’attore così, solo al servizio di altri registi… io ho bisogno di sfide.
Secondo lei che momento vive il teatro? Qual è la sua funzione? La comicità a che punto si trova?
Il momento che il teatro sta vivendo non è uno dei migliori, anche se il pubblico torna a teatro e – devo dire – è una grande soddisfazione. Vedere le platee piene fa sempre molto piacere ma questo non è un bel momento perché i soldi non sono distribuiti nel modo migliore. Ci sono degli agglomerati di teatri, delle istituzioni che hanno tanti soldi e c’è tanta fatica nelle compagnie minori. C’è questa costrizione a dover scambiare, che è una cosa terribile: io ho un teatro, ti chiamo se tu mi chiami nel tuo teatro. È una cosa aberrante perché non si parla di qualità ma di quantità. Quando faccio il direttore artistico, non scambio mai: se tu fai un bello spettacolo, io ti chiamo perché lo devo al pubblico che si fida di me in quanto direttore artistico. Io credo nella qualità, pretendo la qualità da me stesso e la pretendo anche dagli altri. Questo sistema intossica il mercato: lavora soltanto chi ha la possibilità di fare questo tipo di scambio, mentre invece ci sono tanti talenti giovani e persone che meriterebbero più attenzione, che hanno solo bisogno di fiducia.
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Invece la comicità esisterà sempre, a seconda delle mode e dei tempi. Io non sono per la comicità usa e getta, mi piace più abbozzare nel filosofico: quello rimane per tutta la vita, mentre invece fare il verso a qualcuno interessa meno – anche se ci sono persone bravissime capaci di far ridere anche parlando di frivolezze. Io tendo più a raccontare storie sull’uomo, diversamente dalla comicità sul politico o sul vip di turno da prendere in giro, mi interessa più andare alla radice delle cose.
Nella sua carrellata di cavalli di battaglia comici, ha notato qualche differenza tra quelli dei primi anni e quelli più recenti?
Io sono uno che ricerca sempre forme nuove di comicità, preferendo sempre una comicità di situazione a quella di battuta. Credo che sia uno studio che si sviluppa negli anni e che la mia maturità, in qualche modo, abbia dato dei frutti. O almeno lo voglio sperare: per adesso in genere esco molto soddisfatto dal teatro… mi auguro che ad Avezzano sia la stessa cosa!
Invece il pubblico come è cambiato in questi trent’anni?
C’è il pubblico che va a teatro, perché lo ama, perché fa parte della propria cultura e della propria vita. C’è il pubblico che va a teatro per voyeurismo perché magari vede l’attore o l’attrice di successo, l’attore di cinema o televisione che va a teatro. Nel pubblico giovane c’è una grande volontà di andare a vedere cose che hanno dei contenuti, che hanno in sé un senso di sperimentazione di linguaggi diversi. C’è l’abbonato che non si muove dalle cose commerciali e chi invece cerca sensazioni nuove. Insomma ci sono tanti pubblici e tante sfaccettature ma, per me, essere uno spettatore di teatro è già un qualcosa in più che essere semplicemente un essere umano. Perché andare a teatro implica una scelta diversa dall’andare al cinema o allo stadio, è un qualcosa che fa parte della storia dell’uomo. Spettatore era anche chi, alla fine di una giornata di caccia, nelle caverne ascoltava i racconti dei cacciatori che avevano ammazzato i mammut: insomma l’idea di “andare a sentire una storia” è un qualcosa che è insita nell’essere umano. Quando sei bambino, ti raccontano una novellina o una ninna nanna per farti addormentare: c’è sempre questa parte di noi alla quale piace ascoltare e essere blandita da una storia. Il pubblico che va a teatro è a prescindere un pubblico santo perché ci fa vivere.
Che ricordi ha di Francesco Nuti? C’è un momento del vostro sodalizio artistico che ricorda con maggiore affetto?
Ho tanti ricordi che vanno dalla rabbia al dolore e alla gioia. Abbiamo passato stagioni belle e stagioni più complicate più brutte: insomma si parla di una vita insieme che ha toccato tanti momenti, con tutta la gamma di sentimenti umani che si tocca quando una persona è importante nella tua vita. Adesso purtroppo ho solo dei ricordi e questo mi dispiace: sarebbe stato più bello avere anche delle presenze invece che solo dei ricordi. Sicuramente è stata una persona molto importante, sia umanamente che professionalmente, perché è stata presente dentro di me come uno specchio che mi ha fatto capire tante cose di me.
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In conclusione, oltre questo spettacolo, c’è qualche nuovo progetto cui sta lavorando che puo svelarci?
Il 16 aprile debutto al Metastasio di Prato con “Lieto fine” l’ultimo capitolo di una trilogia iniziata nei primi anni del 2000, la “Trilogia del sangue” . Dopodiché cominciamo a girare i prossimi tre episodi della dodicesima stagione de “I delitti del Bar Lume”, l’anno prossimo riprenderò per il secondo anno la la bellissima stagione del Falstaff con Arca Azzurra.