L’intervista. Alberici alla Sala Umberto con Bidibibodibiboo tra precarietà del lavoro e assenza di prospettive
Bidibibodibiboo, di Francesco Alberici, in scena con Daniele Turconi, Salvatore Aronica, Maria Aaris e Andrea Narsi, sarà alla Sala Umberto di Roma dal 15 al 20 ottobre: un ritratto al vetriolo della disastrosa situazione in cui versa il mondo del lavoro ai giorni nostri, in un vortice di precarietà, frenesia e brutale competitività.
Scritto, diretto e interpretato da Francesco Alberici, la scena di Bidibibodibiboo – a firma dello scenografo spezzino Alessandro Ratti – trae ispirazione dall’immaginario dell’artista visivo Maurizio Cattelan, riproducendo un classico interno di una cucina anni ‘50 – illuminata dal light designer Daniele Passeri – dietro un lavello con sopra un accumulo di stoviglie sporche, un bicchiere, una sedia vuota per raccontare lo sgretolamento del sogno di una vita senza più nessun incantesimo.
Dipendente a tempo indeterminato di un’importante multinazionale, Pietro è inspiegabilmente preso di mira da un superiore e inizia a vivere un incubo. Il fratello Daniele, drammaturgo teatrale, sceglie di raccontarne pubblicamente la vicenda, trasformandola nel soggetto di uno spettacolo, mettendo in discussione ogni certezza e distinzione tra realtà e finzione, in un intreccio potente e rigoroso che intende scardinare l’idea stessa di autenticità in un continuo scambio di ruoli e di identità, creando confusione tra persona e personaggio, alla ricerca forse di un riscatto, seppur immaginario e solo in “un mondo di fantasia”, alterando e manipolando ricordi e trasformando eventi, riflettendo su scelte e responsabilità, esasperando le situazioni, tutte senza via di uscita, tra rabbia e rassegnazione, fino a non comprendere più, come in un incantesimo, a chi appartiene realmente la storia che si sta raccontando. E forse non poi così importante visto che, in fondo, ci riguarda tutti.
Con dissacrante ironia e al tempo stesso grande tenerezza, da sempre cifra stilistica dell’autore e attore Francesco Alberici, Bidibibodibiboo racconta le scelte e le rinunce, i sogni e le grandi paure di una generazione alle prese con un mondo del lavoro drammaticamente spietato.
Ecco cosa ci ha raccontato il regista.
Precarietà, instabilità e fragilità del mondo occupazionale sono tra i temi principali di questo spettacolo. Quale è stata la scintilla che ha acceso l’ispirazione per scrivere questo testo?
Tutto nasce da una vicenda accaduta a una persona a me vicina. Ne ho tratto spunto e ispirazione, anche perché mi ha coinvolto personalmente. Parliamo di una storia di mobbing che ha catturato la mia attenzione e, dal momento in cui ne sono venuto a conoscenza, ha elevato il mio livello di attenzione rispetto al mondo del lavoro, alle traversie che le persone trovano nell’affrontare circostanze controverse oltre a dover reggere ritmi di lavoro assurdi e un rapporto a volte illogico con i propri superiori. Ho iniziato a rendermi conto di quanto fosse endemico il problema, diffuso a tutti i livelli senza particolari eccezioni. Da quel momento ho iniziato la fase di scrittura che ha dato vita a Bidibibodibiboo.
Tema cardine dello spettacolo è però il mondo del lavoro, in tutte le sue drammatiche sfumature. Dal capitalismo industriale all’essere inglobati come elementi all’interno di una catena di montaggio...
Sulla base della mia esperienza mi sento di dire che oggi sono tutti precarizzati. Anche avere un tempo indeterminato non serve a nulla, è una formula svuotata di senso. Le leggi sul lavoro, o la loro assenza, fanno sì che le aziende, anche di fronte a un tempo indeterminato, possano comportarsi come vogliono, soprattutto le multinazionali che anche nel momento di un licenziamento senza giusta causa fanno spallucce e vanno avanti. Tanto chi se ne frega, chi fa causa a un colosso internazionale? Sulla base di queste considerazioni ci sono anche molte grandi realtà desindacalizzate, con un’assenza paurosa dei diritti dei lavoratori che ne fanno parte.
Un ragazzo che lavorava in una famosa catena di abbigliamento mi ha confermato che anche per andare in bagno deve chiedere il permesso: è una cosa che esiste per davvero e non è accettabile, come gli stipendi che non sono adeguati all’inflazione corrente. Altro grande tema è la responsabilizzazione individuale, per cui col trucchetto di dire che ‘tu sei imprenditore di te stesso’ vengono tolti una serie di diritti che sono dovuti per legge, come nel caso dei lavoratori dipendenti sono vengono inquadrati come partita iva. Nello spettacolo diventa centrale il fatto che oggi non basta che tu svolga bene il tuo lavoro, in molti contesti e molte aziende ti chiedono di avere ‘passione’ per ciò che fai, ti chiedono di amarlo e quindi di aderire emotivamente alla mission aziendale senza avere ulteriore dividendo in cambio, senza diventare socio o avere un ritorno economico maggiore. Lavorare non basta più e questo è un meccanismo pericoloso. Parliamo di una forma di manipolazione, una sorta di lavaggio del cervello e se sei in quel contesto nei sei comunque inglobato.
La precarietà è, secondo lei, una condanna?
Si, lo è. La precarietà crea un problema. C’è anche il fenomeno legato alle grandi dimissioni di persone che abbandonano il lavoro pur non avendo alternative. Perché lo lasciano allora? Perché sono esauste, il clima di precarietà costante, con assenza di diritti e garanzie, dover stare sempre all’erta perché tutto potrebbe finire da un momento all’altro e bisogna reinventarsi è un modo che impedisce di condurre un’esistenza serena. Precario vuol dire anche impossibilitato a fare avanzamenti di carriera, oltre a circondarsi di varie difficoltà nello sviluppare un futuro dignitoso. Il precariato è una condanna.
Mondo reale e immaginario a volte sembrano fondersi, quasi per consolidare le nostre ambizioni e i nostri sogni laddove, invece, per essi non c’è spazio. Anche questo è tema presente nello spettacolo. Credi che questo fenomeno sia più accentuato per la Generazione Z ? Se si, perché?
In parte questo esula dai temi dello spettacolo ma penso che si, oggi ci sia una notevole e grande confusione tra reale e immaginario, acuita dalla realtà virtuale che appunto è un paradosso. La stessa espressione realtà virtuale è un paradosso, o lo è o non lo è. Tema, questo, che invece è indubbiamente centrale. Da un po’ di tempo c’è la cultura dominante che, come criteri di lettura della propria vita, imposta tutto su successi e fallimenti. E’ una lettura deviante e pericolosa che non rispetta la realtà, è un tipo di modo di leggere la propria vita che genera frustrazione, rabbia e insoddisfazione continua. La mia generazione è cresciuta secondo questo schema e con l’idea che si sarebbe trovata davanti un mondo del lavoro che gli consentiva di fare qualsiasi scelta. E invece non è stato così.
Ha tratto ispirazione da un’opera dell’artista Maurizio Cattellan: può spiegarci meglio di cosa si tratta e come ha influenzato la tua scrittura e visione di Bidibibodibiboo?
Non la conoscevo, me l’ha fatta vedere una mia amica nel mentre lavoravo alla scrittura di questo testo e mi ha letteralmente rapito. Ho guardato quel lavoro e da quel momento in poi scrivevo con l’immagine fissa nella mente. Pensavo che avrei voluto che quell’opera divenisse la scenografia del mio spettacolo, anche perché emanava un’aura amara, irriverente e dissacrante. Un’opera che col titolo è fantasiosa, disneyniana, ma dove c’è un animaletto che si è suicidato in una sporca cucina degli anni ’50. Quest’opera mi ha profondamente ispirato durante la fase di scrittura proprio per il messaggio disperato che trasmette all’interno di un contesto colorato e verosimilmente fantastico.
Quale crede che sia lo stato di salute del teatro italiano?
Pessimo, inutile girarci attorno. Il teatro italiano è in sofferenza, in difficoltà, è un mercato del lavoro che non esiste, è la rappresentazione di un mercato del lavoro in deficit costante. Non ci sono soldi, opportunità, gli spettacoli non si riescono a distribuire, non si riesce a lavorare su un pubblico specifico. Ci sono belle realtà che provano a reagire ma di fatto sono poche e in un contesto desertico. C’è una terrificante miseria economica che chi fa il nostro lavoro subisce nel quotidiano. Mancano prospettive, ci si sente come su una barca che affonda ma sulla quale tutti dicono che occorre buttare fuori l’acqua. Affonda e affonda sempre di più. Il comparto teatrale in Italia non è finanziato a dovere dallo Stato, è un qualcosa con cui riempirsi le bocche. Non è neanche una questione politica, ma proprio di assenza d’interesse da parte delle istituzioni.