L’intervista a Monica Biancardi: “scrivere con la luce” per raccontare le forme del trauma
Dal 1 al 16 maggio i sotterranei del Palazzetto dei Nobili dell’Aquila ospiteranno la mostra collettiva “Estetica del Trauma” a cura di Monica Biancardi.
Dopo il successo di due anni fa a Napoli, giovani artisti abruzzesi, campani e stavolta anche sardi, proseguono un lavoro creativo che affronta il tema del trauma declinato in vari modi.
I 14 artisti espositori sono: Federico Luciano, Beatrice De Meis, Federico De Sanctis, Giovanna Capone, Andrea Marinucci, Maria Sara Crisponi, Marcus Usai & Carlo Schoeneberger, Chiara Podda, Ilena Ragosta, Giulia Romolo, Lorenzo Scimia, Francecsa Rinella, Francesca Chiola, Ferdinando Mazzitelli.
La curatrice, Monica Biancardi, li ha guidati nella riflessione sul senso di “scrivere con la luce” in modi e mezzi diversi. Ce lo ha spiegato in un’intervista.
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L’intervista
Come si compone la mostra “Estetica del Trauma”?
Si compone di studenti abruzzesi, campani e sardi. È una mostra che è nata anni fa, quando io insegnavo all’Accademia di Belle Arti all’Aquila. Ho aggiunto la presenza dei campani, a cui avevo già insegnato, e una new entry sarda che inaugura dopodomani a Palazzetto dei Nobili. Ci saranno associazioni, standardizzazioni, pura fotografia in grande o piccolo formato, per un totale di 14 opere.
Qual è la genesi di questo progetto?
Visionando alcuni lavori di ragazzi che man mano conoscevo, mi sono resa conto che il terremoto dell’Aquila ha ferito fortemente i giovani – anche coloro che adesso non hanno ancora trent’anni -, la cui memoria batte sempre su questa perdita grave, per cui molti di loro sono aquilani ma vivono in case (anche nella stessa città) che non sono le loro. Uno studente, Federico Luciano, ha ricostruito fotograficamente quei terribili tre minuti nell’immagine “3.30 3.31 3.32” (che ho deciso di far diventare l’immagine invito). Dal territorio aquilano, lo skyliner con più gru in tutta Europa, mi è venuta l’idea di parlare di traumi.
Come si declina il trauma nella sua mostra?
Ci sono diversi tipi di trauma: i conflitti; i problemi ambientali come gli incendi dolosi di cui soffre la povera Sardegna – rappresentati da un albero in resina da cui penderanno decine e decine di “fotografie di foglie bruciate” -; il trauma declinato sottoforma di gender – un ragazzo con barba e baffi che si veste da donna in scena e si fa ritrarre da chiunque, restituendo un’istantanea, una fotografia. Oppure ancora un trauma di tipo visivo-formale: una ragazza presenta decine e decine di vetri rotti che diventano delle briciole quasi di diamanti, che noi illuminiamo in un modo tale che questa eco di luce può quasi accecare. O ancora un trauma alimentare: c’è una ragazza vegana dall’età di 7 anni perché vive in una famiglia di cacciatori e ci restituisce il trauma della caccia sotto forma di leporello (il “libro a fisarmonica”).
Come ha scelto gli artisti?
A dir la verità questi “giovani artisti” – così li chiamo – sono ancora studenti. Il percorso di docenza in Accademia permette di conoscerne meglio le capacità. Nell’esame di fotografia non assegno mai un tema specifico ma chiedo a loro di cosa desiderano parlare: man mano li conosco e cerco di aprire un po’ la strada, di far venir loro delle idee, che hanno ma non riescono a far venir fuori.
Ha dato loro delle indicazioni precise per guidarli?
Sì, quando appunto chiedo loro di cosa vogliono parlare, ascolto i desideri ma li consiglio. Come quando mi dicono che vogliono fotografare i fiori o l’acqua e non c’è nessun tipo di ragionamento, denuncia o riflessione… La fotografia è un medium come gli altri e ci serve per restituire un pensiero, quindi per parlare di qualcosa. Perché l’arte a questo serve: a denunciare, a far vedere cose che gli altri non riescono a vedere, non a decorare le pareti. Quello non serve a nulla e ne sono capaci tutti.
Lei come rappresenterebbe il trauma? Quale immagine le suscita questa parola?
Bella domanda! Io ho lavorato tanti anni in Palestina e quindi sono molto piegata e afflitta per quello che sta accadendo. Però, in questo momento, ti risponderei che sono abbastanza traumatizzata da quello che sta accadendo nel nostro Paese: stiamo perdendo tanto, perché c’è un sistema di controllo che sta diventando sempre più asfissiante e traumatico. Per quanto mi riguarda, penso che dobbiamo avere diritto ad esprimerci liberamente senza offendere nessuno, quindi questo sistema di controllo che toglie la libertà d’espressione mi spaventa, sì mi traumatizza.
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Due anni fa l’esposizione negli spazi di Shazar Gallery di Napoli: come reagì il pubblico?
Molto molto bene! La gente ha partecipato curiosa all’inaugurazione, poi ci sono state centinaia di persone nei giorni successivi. La galleria è stata sempre piena, soprattutto con una ventata di giovani bravi. C’è da dire che il direttore, che è una persona molto preparata, ovviamente mi prese per pazza quando da artista della galleria gli ho proposto una mostra di studenti. Io gli garantii la buona riuscita e lui accolse la sfida: è rimasto felicissimo quando si sono addirittura vendute delle opere. Adesso tutti in pompa magna torniamo all’Aquila con un format leggermente ingrandito. Verranno addirittura dei collezionisti da Milano!
Cosa si aspetta dal pubblico aquilano?
Io ho insegnato all’Aquila, città che ho amato, e sono felice di tornare tra queste terre verdi, fresche e belle! Mi aspetto curiosità, che vengano a vedere la mostra.
Progetti per il futuro?
C’è il desiderio di portare la mostra in Sardegna. Diciamo per l’anno prossimo ma magari anche prima!
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La foto in copertina
Chiara Podda, “Greetings from Montevecchio mine”, 2023/2024, installazione foto e ceramica, 100cm x 40cm.
“Il fiume rosso che passa attraverso le gallerie della miniera di Montevecchio trasporta con sé minerali e metalli pesanti per poi gettarsi in mare. L’eredità lasciata dall’attività mineraria sarda è una ferita che non può e non si vuole rimarginare.“