L’intervista a Daniele Paoloni, protagonista di “Tre Giorni”: “un lavoro sulla paura che fa da contraltare alla vita”

Avezzano. Dopo il sold out di “Elena, la matta” con Paola Minaccioni, prosegue la stagione di prosa indipendente del Teatro OFF di Avezzano: venerdì 7 marzo alle 21 sarà di scena lo spettacolo “Tre Giorni”, scritto e diretto da Federico Malvaldi, e con Daniele Paoloni, Francesca Astrei, Veronica Rivolta e Luca Carbone.
In “Tre Giorni“, l’attore avezzanese Daniele Paoloni interpreta Rob, un ragazzo malato di cancro alla spina dorsale, che deve affrontare un’operazione complessa: ha il 50% di riuscire e il 50% di… beh, avete capito. Ha dunque tre giorni per fare i conti con sé stessi e con tutti i fantasmi del passato, per accettare che tutto potrebbe finire entrando in quella maledetta sala operatoria. Tre giorni per dire l’ultimo ti voglio bene a una madre rimasta sola, o per ricordare le bravate di gioventù insieme al proprio migliore amico. Tre giorni di paure e di incubi, ma anche di sorrisi e momentanee speranze.
Prima dello spettacolo, abbiamo avuto occasione di intervistare Daniele Paoloni.
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L’intervista
Che tipo di spettacolo deve aspettarsi chi viene a vedere “Tre giorni“?
“Tre Giorni” tratta un tema complesso che può sembrare anche un po’ difficile da digerire, però in realtà lo fa con una “leggerezza”, anzi con ironia più che leggerezza, che stempera l’atmosfera e allo stesso tempo riesce ad aprire dei canali che lo fanno arrivare più in profondità. Quindi è uno spettacolo, secondo me, ironico, profondo e che tocca delle corde intime nello spettatore.
Come si è preparato per questo ruolo? Ha preso ispirazione da qualche personaggio o storia vera?
Il lavoro principale è stato fatto sulle situazioni che questo personaggio affronta, sulle relazioni – sia quelle precedenti agli eventi che raccontiamo, sia quelle che si verificano poi in ospedale. La domanda-guida nella lavorazione del personaggio è “quali sono i pensieri che ha un uomo in quella condizione?” L’inevitabilità manifesta che caratterizza la nostra vita, ovviamente. C’è un lavoro sulla paura, che fa da contraltare alla vita, che invece bussa continuamente alla sua porta. E poi c’è un lavoro sul corpo che, secondo me, è la chiave principale per entrare in determinate sfere: ho lavorato sul dolore in maniera molto specifica su un punto del corpo – ho concentrato diciamo la tensione sul fianco destro a livello posteriore. Poi la cosa principale è il lavoro con i miei partner di scena, che sono fantastici: un gioco chimico con ognuno di loro che contribuisce a fare avanzare nel percorso del personaggio e di me attore. Insomma, è un lavoro che non potrei mai sostenere da solo: nella preparazione e nella realizzazione gli altri sono fondamentali. Infine anche un’analisi del testo approfondita è importante perché riesci a scovare dei dettagli che magari neanche l’autore avrà immaginato.
La risposta del pubblico nelle varie repliche di “Tre Giorni” qual è stata? Ha influenzato in qualche modo il suo approccio allo spettacolo?
In generale noi andiamo abbastanza per la nostra strada, perché nonostante cioè ci siano tante risate, cerchiamo di non cavalcare quella nota lì, perché altrimenti si snaturerebbe il cuore della dello spettacolo. Però il pubblico ha risposto sempre molto bene, i feedback principali che abbiamo avuto dopo le repliche hanno sempre sottolineato come le persone abbiano attraversato momenti di grande commozione, di grande ilarità e di amarezza. Siamo molto felici di come il pubblico ha reagito – che poi insomma, noi lo facciamo per loro. Questo non è uno spettacolo intellettualista, uno spettacolo che vuole raccontare una storia semplice, che però insomma riesce ad attivare dei neuroni-specchio nello spettatore.
Cosa le ha insegnato il “suo” Rob? quanto invece c’è di Daniele Paoloni in questo personaggio?
Sicuramente Rob mi ha insegnato che lasciarsi permeare dai richiami della vita, anche nei momenti più difficili, è la scelta migliore: non chiudersi dentro i propri pensieri, dentro le proprie corazze, ma lasciare che la luce entri anche nei momenti più bui. Ovviamente c’è tanto di me in Rob: la mia sensibilità, le mie fragilità personali – inevitabilmente noi attori utilizziamo i nostri pensieri per dare corpo a quelli del personaggio, cercando di fare una sorta di binario parallelo tra la storia del personaggio e la nostra. Attraversare questo personaggio con onestà, senza cercare di emozionarsi per forza o costringere il pubblico ad emozionarsi, permette di trovare dei punti di connessione molto profondi, anche inaspettati, con il personaggio.
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A Rob restano tre giorni prima di un rischioso intervento e sceglie di affrontarli con la madre e il migliore amico, tra paura, ironia e un nuovo amore. Si è chiesto come passerebbe lei i suoi ultimi tre giorni?
È una domanda alla quale penso sia impossibile rispondere senza ritrovarsi di fronte a una problematica così grande. Però la risposta che mi sento di darti è che mi circonderei di tutte le persone care e passerei tutto il tempo possibile con loro.
Negli anni ha avuto fortuna in vari ambiti, tra teatri importanti, cinema e serie tv, lavorando con grandi nomi dello spettacolo. Ma ha ancora un sogno nel cassetto?
Ma tanti, tantissimi! Mi piacerebbe espatriare come artista, lavorare all’estero, girare un film da protagonista, costruire una famiglia. Insomma i sogni sono tanti, però sono convinto che piano piano uno se li costruisce: cerco di lavorare nel presente, nella concretezza, però con uno sguardo verso quello che mi piacerebbe essere tra dieci anni.
Questo spaziare tra tanti ambiti ha cambiato il suo rapporto con il teatro? Hai una preferenza tra teatro, cinema e serialità?
Il mio rapporto con il teatro è cambiato nel senso che mi piace ancora di più. È chiaro che il cinema ti dà possibilità di regalare ai personaggi delle sfumature più sottili, però il teatro ha la caratteristica che avviene tutto lì, e soprattutto avviene con il pubblico. Insomma c’è un nutrimento in scena che davanti alla macchina da presa non si ha. Quando sei di fronte a mille persone, l’energia interiore del pubblico è una scossa che non dimentichi mai. Il lavoro a teatro non può esistere senza pubblico. Per questo la mia cosa preferita è fare teatro, perché è la casa dell’attore. Il cinema è interessante perché ti permette di scavare a fondo, di restituire una storia attraverso soltanto gli occhi, però il teatro coinvolge tutto il tuo essere. È un atto sacro, è come una messa perché avviene lì di fronte a dei “fedeli” che hanno pagato un biglietto per passare lì con te una o tre ore. E tu sei parte di quella cerimonia. Non può essere altrimenti, non posso non preferire quel luogo.
A proposito di “casa dell’attore”, che effetto fa andare in scena nella “sua” Avezzano?
È sempre bellissimo: adesso era da tanto che non ci che non ci tornavo e ovviamente c’è un’emozione particolare nel recitare qui. Non sono agitato al pensiero di recitare qui ma non vedo l’ora, perché c’è la mia famiglia, i miei amici e persone che mi conoscono da quando avevo un mese. Insomma mi commuove solo il pensiero di recitare qui.
Quali progetti ha per il futuro? In cosa la vedremo impegnato?
Subito dopo questo spettacolo inizieremo le prove di un nuovo lavoro con la compagnia Remuda Teatro con Federico Malvaldi e Veronica Rivolta che si chiama “In un’altra vita”, col quale debutteremo a Roma (Teatro Lo Spazio) a fine aprile, poi a Pisa. A maggio avrò le prove di “La futura classe dirigente” per la regia di Caterina Marino, uno spettacolo a cui tengo molto sul cambiamento climatico basato sulle risposte di ragazzi tra i 6 e i 13 anni, che debutterà al Roma Europa Festival ad ottobre. Per quanto riguarda il cinema, stiamo aspettando notizie per la seconda stagione di “Citadel: Diana” e sarò nel cast principale di un film per la regia di Arnaldo Catinari che probabilmente uscirà alla Festa del Cinema di Roma: “Alla festa della rivoluzione” parla della vicenda fiumana e io interpreto Alceste De Ambris, il capo di gabinetto di D’Annunzio … e poi si continuano a fare provini! Insomma, ci sono tante novità in arrivo e tanto lavoro fortunatamente.