L’intervista a Daniela Giombini, la ragazza che portò i Nirvana a Roma
Lo scorso 1 gennaio, in un Cinema Aquila di Roma gremito in ogni ordine di posto, è stato proiettato in anteprima nazionale “Rome as you are”, un documentario dedicato alle due epocali tappe dei Nirvana nell’Urbe (il 27/11/1989 al Piper insieme ai Tad e il 19/11/1991 al Castello con gli Urge Overkill), entrambe organizzate da Daniela Giombini e dalla sua Subway Productions. Inutile dire che si tratta di un’opera in grado di arrivare dritta al cuore di tutti gli appassionati del gruppo di Kurt Cobain e del Seattle sound, grazie a un resoconto minuzioso e mai banale dei due straordinari eventi, con una lunga serie di curiosi, a volte commoventi aneddoti che tengono letteralmente avvinto lo spettatore al grande schermo.
Non ci siamo lasciati scappare l’occasione di parlarne un po’ con la stessa Giombini, che della “pellicola” è sceneggiatrice e regista (insieme a Tino Franco e Marco Porsia), ma soprattutto protagonista insieme al leggendario Bruce Pavitt, fondatore della Sub Pop, la label che per prima credette nelle potenzialità dei Nirvana e di tanti altri gruppi tra i quali è doveroso ricordare perlomeno Soundgarden e Mudhoney.
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La nostra chiacchierata non può che cominciare dalla seguente domanda: cosa ti ha, vi ha spinto a girare questo documentario? E puoi illustrarci come si è sviluppato, cosa è cambiato passando “dalla carta” alle riprese (se qualcosa è cambiato) rispetto a quanto preventivato?
Mi ha spinto l’esigenza di dire la mia, che ho vissuto quel periodo in prima persona, e di coinvolgere tutti quelli che c’erano e che ricordo uno ad uno. Per anni ho rilasciato interviste a ragazzi che all’epoca erano appena nati, per cui era diventata una necessità quella di far luce su quei concerti, sulla mia generazione, ossia di tutti quelli che come me si occupavano di musica. Non è stato facile trasformare in immagini la storia, fortunatamente sono stata affiancata da registi professionisti come Marco Porsia (Rema Rema e Swans) e Tino Franco (Space Off, Italiani nello Spazio). Tino è stato anche il produttore del progetto, senza di lui il documentario non sarebbe stato possibile. La mia idea inizialmente non mi vedeva come protagonista, quella è stata una scelta dei registi, io volevo fare un documentario su tutte le date italiane che ho seguito coi Nirvana come tour manager.
All’inizio di “Rome as you are” fai giustamente riferimento alla meravigliosa incoscienza che ti spinse a diventare sul finire degli anni Ottanta dello scorso secolo una booking agent in un periodo storico dove, oltre alle difficoltà e ai continui imprevisti di cui si sostanzia questa professione, l’ambiente di riferimento non era certo dei più favorevoli per una donna. Anche se ormai sono passati diversi anni da quando hai lasciato, come pensi sia cambiato questo tipo di attività? E, guardandoti indietro, cosa pensi di aver innovato nel tuo (si fa per dire) piccolo?
Ormai è cambiato tutto, è pieno di donne agenti e ragazze che studiano questa professione all’università, a Milano c’è anche una facoltà specifica. Una volta si lavorava per passione, nascevano delle professioni e a volte i sogni si avveravano. Ora credo si tratti più del miraggio di un lavoro ben retribuito, quindi di business. Certo è un’attività che, se va bene, ti consente di guadagnare molti soldi, ma se va male può farti perdere tutto in un attimo. Somiglia al gioco d’azzardo, funziona quasi allo stesso modo.
L’aver puntato su una band come i Nirvana prima che diventassero il simbolo di un’epoca rende onore non solo alle tue capacità e intuizioni, ma anche a quelle di scouting di chi te li propose. Secondo te esistono ancora dei presupposti, non soltanto imprenditoriali, per mettere su una “rete” virtuosa come quella dei tempi? Cosa consiglieresti di fare ad un “incosciente par tuo” dei giorni nostri?
Promuovevo unicamente i gruppi che mi piacevano, a prescindere dai soldi che mi facevano guadagnare. Oggi come oggi i gruppi costano troppo, oppure non costano niente, non c’è una via di mezzo. Purtroppo le case discografiche non investono più contribuendo finanziariamente ai tour, per cui diventa sempre più difficile per le nuove band fare dei tour promozionali. Non so se è un mestiere che consiglierei di fare, perché oggi non ci sono più i valori che c’erano una volta. La mia agenzia, la Subway Productions, faceva parte di un network a livello europeo con cui cercavamo di contrastare un po’ il mercato inglese che era fatto di puro business. Oggi si prendono i gruppi direttamente dai manager americani, dunque chiunque può fare offerte e rilanciarle in una specie di gioco al massacro e a volte per accaparrarti una band e organizzare qualche data devi associarti con altri tre promoter oppure fare un mutuo! E poi ci sono le multinazionali come Live Nation che inglobano tutto e che fanno fuori tutti. Oggi come oggi non farei più questo mestiere, piuttosto mi metterei a fare il booking europeo per band italiane. Ce ne sono tante validissime, basta ascoltare la colonna sonora del documentario per rendersene conto.
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La prima cosa che hai pensato quando hai rivisto Bruce Pavitt dopo tutto quel tempo? E, già che ci siamo e nonostante siate entrambi assolutamente molto naturali nelle riprese, cosa vi siete detti di particolarmente emozionante a telecamere spente? Cosa si prova ad aver fatto parte della storia di chi ha fatto la storia?
Abbiamo parlato dei figli, dell’esigenza simile che abbiamo avuto di uscire fuori dal music business, io prima di lui. Bruce è andato a vivere lontano, alle isole Orcas per vedere i figli crescere in serenità. Poi durante le riprese siamo scappati per andare a fare un bel giro a Piazza San Pietro.
Nel documentario, ma anche attraverso i giornali dell’epoca e i siti internet oggi, ci è stata tramandata un’immagine di Cobain che, al netto di certi tracolli emotivi, è quella di un ragazzo alla mano e sensibile. Potresti aiutarci a capire in che misura lo era, al di là di quello che abbiamo visto e letto? Magari facendoci partecipi di una vostra chiacchierata in particolare o di un qualche episodio che ti ha dato la possibilità di essergli vicino.
Quando l’ho conosciuto la prima volta era solo un ragazzino di 22 anni che non aveva mai viaggiato fuori dagli Stati Uniti, ed era visibilmente sensibile e introverso ma anche gentile e generoso, si preoccupava molto dell’umore degli altri e mi chiedeva spesso come stavo. Nel 1991, mentre viaggiavamo sul tour bus, era seduto di fronte a me e, da persona cortese quale era, si sentì in dovere di parlarmi perché mi vedeva un po’ in disparte. Scriveva sul suo diario e, essendo vicini come ti ho detto, andò a finire che lo contagiai con un raffreddore che mi era venuto il giorno della partenza! Sempre sul bus, un giornalista inglese che era al seguito della band annunciò al gruppo incredulo che Nevermind aveva venduto già un milione di copie.
Si chiude il sipario sull’affollatissimo concerto del Castello a Roma: ascoltando le canzoni di Nevermind e osservando la reazione della gente, hai subito capito dove sarebbero arrivati i Nirvana di lì a poco? E, visto che hai avuto modo di lavorare con tanti gruppi importanti e anche affini per genere a loro, cosa avevano in più rispetto agli altri?
Certo, ho capito subito che dopo quella data non ci saremmo più rivisti. A parte la gente, era stato disarmante e fastidioso vedere l’interesse di giornalisti e discografici che fino al giorno prima seguivano tutt’altro genere. I Nirvana hanno prodotto un album, Nevermind, che resterà nella storia. Avevano quel non so che, univano delle sonorità pop al punk, all’hard rock e alla psichedelia, chiunque si poteva immedesimare in loro e ritrovarsi nei loro testi. Inoltre la fotogenia di Kurt era impressionante. On stage poi si trasformavano in veri animali da palcoscenico: dall’essere un ragazzino timido, Cobain diventava una vera forza della natura.
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Due domande in una: la tua prima reazione alla notizia della morte di Cobain e quella al raggiungimento della prima posizione della classifica di Billboard 200 da parte di Wasting Light dei Foo Fighters. Che tipo era Dave Grohl?
Kurt Cobain è stata la prima persona giovane che è morta tra quelle che ho conosciuto; quando ho sentito che si era suicidato ho pensato: “Ma come mai? Era così famoso e nessuno l’ha aiutato”? Mi sono sentita un po’ in colpa per non essere andata a trovarlo quando aveva provato a suicidarsi a Roma, chiaramente non mi avrebbero lasciato passare perché era assediato, ma comunque mi sono sentita in colpa. Dave Grohl era un tipo allegro ed estroverso, uno che riusciva ad essere amico di tutti, una grande virtù, oltre a spandere intorno a sé una innata simpatia. Sono stata molto felice quando ho saputo che, dopo i Nirvana, aveva sfondato anche con i Foo Fighters.
La vita deve andare avanti (come giustamente sottolinei anche nel documentario), ma sa anche tornare indietro. Ci racconti qualcosa di questa versione 3.0 di Tribal Cabaret, la fanzine con la quale ti sei avvicinata al giornalismo musicale negli anni Ottanta prima di fondare la tua agenzia? Qual è la sua cosiddetta mission nell’anno (si spera) di grazia 2025? Dove vuole arrivare?
“Tribal Cabaret” è la fanzine che assemblavo e realizzavo da ragazza con i “pionieristici” mezzi dell’epoca. Tutto è iniziato da lì, è stata una palestra di “passione” e di vita fondamentale e tornare a realizzarla oggi è per me come un cerchio che si chiude. A fine gennaio 2025, Dario Calfapietra ed io pubblicheremo il N.11, sempre con in allegato una tape compilation contenente gruppi italiani e internazionali, perché ci piace promuovere tutti quei gruppi che se lo meritano.
Come chiunque abbia assistito all’anteprima di “Rome as you are”, non ho potuto esimermi dal lodare la tua, la vostra opera sui social e a voce parlando con dei conoscenti. Ci puoi dire quali sono, se ci sono, i piani di distribuzione nel futuro prossimo? E sei cosciente che, lungi dall’essere operazioni-nostalgia, lavori di questo tipo possono avere una grande utilità nel riaccendere l’interesse dei ragazzi, soprattutto quelli che vivono a Roma che ne ha tanto bisogno, nei confronti della musica live e, più in generale, di “appartenere” a una scena musicale vera e non di cartapesta?
Certo, mi auguro che la visione di questo documentario possa ispirare i giovani a fare quello che facevamo noi alla loro età: rimboccarsi le maniche, inventarsi un mestiere e creare una rete di contatti concreta, non aleatoria. E la musica motiva a fare tutto questo, è un “motore” straordinario.
Per “Rome As You Are” abbiamo deciso di fare un’autodistribuzione mettendoci ogni volta la faccia e andando a rispondere personalmente alle domande del pubblico in sala. il 7 febbraio saremo al Bloom di Mezzago (MI) dove i Nirvana suonarono nel 1989 e nel 1991, l’8 febbraio al Cinemino ad Astra di Genova, il 20 febbraio al Cineteatro Buonarroti di Civitavecchia, il 15 marzo al Germi di Milano. Stiamo aspettando conferme per altre date in giro per l’Italia tra febbraio e aprile che annunceremo su Facebook e Instagram (Daniela Giombini • Tribal Cabaret • Official RadioDario). Seguiteci lì!