L’intervista a Alessia Camoirano, l’italiana candidata agli Emmy Awards, il più ambito premio televisivo
L’eccellenza italiana riconosciuta anche oltre oceano: Alessia Camoirano è stata nominata ai prossimi Emmy Awards nella categoria Outstanding Soft Feature Story, Long Form (Miglior lungometraggio documentaristico), per il documentario ideato, scritto e prodotto da lei per il canale americano Vice: The Teenage Mafia Academy.
Un documentario di inchiesta sui bambini e ragazzi che lavorano per la mafia napoletana cui Alessia Camoirano è riuscita a dare un taglio originale intervistando associazioni che tentano di offrir loro una seconda possibilità. Tra queste l’associazione “Un’infanzia da vivere” di Bruno Mazza.
Nata e cresciuta tra Genova, Cogoleto e Verona, Alessia Camoirano si è formata presso University of Arts London in Inghilterra mentre in Italia collabora con Ahora! film di Marco Pollini. Nel documentario da lei realizzato, appare anche nel ruolo di presentatrice e conduttrice.
Nell’ambito televisivo un Emmy Award è considerato l’equivalente del premio Oscar per il cinema, del Grammy Award per la musica e del Tony Award per il teatro. Essere anche solo nominati a ognuno di tali premi, insieme abbreviati nell’acronimo EGOT, è come vincere un Grande Slam nel mondo dello show-business.
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L’intervista
Come è nato il documentario “The Teenage Mafia Academy”?
Parlare di criminalità giovanile è qualcosa che mi ha sempre interessato perché spesso manca l’empatia. Crescendo ho visitato tanti posti nel mondo e ho sempre notato come questa sia una costante: che sia negli Stati Uniti, Regno Unito, Colombia etc i bambini che vivono in contesti di criminalità purtroppo molte volte finiscono anche loro a fare questa vita. Da vittime diventano carnefici, non capiti, accusati, abbandonati dallo Stato e da adulti che possono aiutarli.
Era quindi importante per me far vedere questo passaggio, andare alla base, gli inizi. Ho davvero molta empatia per i ragazzi giovani, dato che ho vissuto momenti di depressione: quello che ho vissuto io è il nulla comparato alla vita di questi ragazzi, non posso nemmeno immaginare come loro si sentano ed è davvero importante per me chiederlo direttamente a loro, dare una voce a loro. Perché so come ci si possa sentire a non avere una voce.
Avendo fatto un documentario con Baby Gang e Rondodasosa ho capito che volevo fare qualcosa in Italia e, dopo mesi di ricerca, la situazione più allarmante era effettivamente quella di Napoli, perché non era solo criminalità giovanile, ma criminalità organizzata. Dopo aver fatto un documentario sulle gang di Marsiglia mi sono sentita più sicura, con abbastanza esperienza, da poter trattare temi così delicati. Quindi ho parlato con il regista Jamie Tahsin e insieme siamo andati da Will Fairman, il produttore esecutivo di Vice che ha dato piena fiducia.
Come si è sviluppato il progetto?
Ci sono voluti tanta ricerca e tanta empatia: era chiaro fin dall’inizio che non saremmo andati lì con accuse, ma per far parlare loro. Ho trovato Bruno Mazza facendo varie ricerche online, ho parlato con lui ed immediatamente è diventato il mio eroe: una persona incredibile.
Ci siamo organizzati poi organizzati con dei contatti di Napoli per poter scendere alle Vele – ci son voluti mesi per stabilire la sicurezza di tutti i partecipanti. Abbiamo cercato un DOP e scelto Richard Smith che ha fatto un lavoro spettacolare, dopo di che abbiamo iniziato a lavorare alle domande che avrei fatto in location, ma alla fine ho improvvisato quando sono arrivata perché ho capito che certe domande erano più appropriate di altre.
Siamo rimasti li per sei giorni e i ragazzi ci hanno presentato gli adulti, i loro coetanei, le loro zone, ci hanno raccontato la loro vita. Poi siamo andati al Parco Verde di Caivano dove abbiamo passato tempo con Bruno Mazza. Tornati a Londra abbiamo cercato un editor e scelto l’eccezionale Victoria Fiore.
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Nell’era delle serie Tv, come mai ha scelto proprio la forma documentarista?
Ho studiato giornalismo, dopo film e tv: così mi sono avvicinata molto al genere del documentario, anche se in realtà è sempre stata la mia grande passione. Poter andare in luoghi dove magari altri non vanno, parlare con persone che hanno storie difficili e spesso incomprese, dare voce a persone che magari non hanno l’opportunità di avere voce in capitolo nella loro storia. I documentari che interessano a me e vorrei fare sono storie in cui i fatti superano la fantasia. Ad ogni modo, i documentari sono anche serie tv e sto lavorando ad una serie televisiva di documentari.
Nel titolo del suo documentario “The Teenage Mafia Academy” sembra di avvertire una sorta di ironia.. oggi si può ridere della mafia?
In realtà non è ironia. Nel 2020 la DIA ha rilasciato la relazione semestrale su un nuovo fenomeno di bande di ragazzi molto giovani che aspirano ad essere camorristi. Proprio la DIA chiama questo fenomeno “accademia della camorra”. Il titolo quindi viene da mesi e mesi di ricerche.
Sulla mafia non si può scherzare o ridere: ci sono genitori che perdono i figli, ragazzi e bambini che perdono la loro infanzia e gioventù a causa della mafia, intere economie senza futuro a causa di attività mafiose, corruzione. La lista è lunga, quindi no, non si ride della mafia.
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Nell’epoca dei social, come sta cambiando la mafia?
Il concetto di omertà sta cambiando molto. Sui social si vedono mafiosi che mostrano le loro attività, cosa hanno comprato con le loro attività, macchine di lusso, cash, Rolex, feste su feste. Ci sono anche molti modi di comunicare sui social: ad esempio l’utilizzo di certe emoticon per dimostrare a quale clan appartengono o vorrebbero appartenere. O ancora certi criminali adescano ragazzi sui social, iniziano lì a comunicare con loro, magari dando piccoli lavoretti, testandoli per vedere fino a dove si spingerebbero. Sui social si dimostra una certa propaganda.
Adesso sono i social, prima comunque la modalità era farsi vedere in giro e far vedere quello che potevano guadagnare facendo attività criminali. I social stanno cambiando il modo nel quale un certo tipo di mafia comunica. Certo, non tutti fanno così e questo vale per anche altri cartelli tipo in Messico o le gang Inglesi. I valori del rispetto rimangono comunque saldi, l’omertà meno.
Il genere dei Mafia movie ha sempre creato una sorta di fascino negli spettatori, al punto da essere emulato dagli stessi soggetti mafiosi e dal pubblico, addirittura nei giochi dei bambini. L’attuale grande successo della serie Mare Fuori potrebbe avere un impatto negativo sulle nuove generazioni?
Purtroppo non ho avuto modo di vedere Mare Fuori poiché non è disponibile in Inghilterra. Il crimine esisteva prima delle serie tv, film e libri ed effettivamente sono gli autori che si ispirano a fatti reali per poi scrivere le storie che vengono romanzate. Al Capone, Pablo Escobar, i clan di Scampia etc sono tutti esistiti e la violenza e distruzione che hanno portato sono reali, non sono romanzi. Non sono nati prima i libri o film e poi i cartelli, è il contrario.
Detto questo, credo che bisogna fare molta attenzione quando si trattano storie ispirate alla mafia perché ho notato come certe volte queste romanzino, glorificano e giustificano il crimine organizzato, mostrandolo come qualcosa a cui aspirare.
Cosa rappresenta la candidatura agli Emmy, “gli Oscar della televisione”, per una giovane sceneggiatrice italiana?
Come reporter, autrice e produttrice è qualcosa di totalmente inaspettato. Lo dico sinceramente, non pensavo potesse succedere qualcosa del genere. Ho davvero lavorato tanto, rinunciato a tanto e messo in pausa tanti aspetti della mia vita per questa carriera ma non pensavo sarebbe mai successo, specialmente alla mia età. Ancora adesso faccio fatica a credere di essere una Emmy nominee.
Magari questo aprirà qualche porta in Italia, chissà. Sono davvero contenta che questa sia una storia italiana, che all’estero venga riconosciuta come una storia importante. Non mi sembra ancora possibile.