Lino Guanciale e quel Dialogo di profughi che parla dritto all’anima
Lo abbiamo scritto e lo ripetiamo con convinzione: Ricomincio da RaiTre, il programma che tutti i sabati va in onda sul terzo canale della televisione pubblica, è una boccata d’ossigeno in un’atroce apnea da palinsesti colmi di tracotante mediocrità. La terza puntata ha visto, tra i vari ospiti, Lino Guanciale, Elena Sofia Ricci Flavio Insinna, Fabrizio Gifuni, Gabriele Lavia, Roberto Bolle e Lella Costa. Insomma, un gran cast, analogamente alle puntate precedenti.
Quando parliamo di tracotante mediocrità televisiva, non senza un pizzico di simpatica polemica, non facciamo di tutta l’erba un fascio, ovviamente, ma il programma condotto da Stefano Massini e Andrea Delogu spicca per qualità e, soprattutto, ragion d’essere. La Rai fa la Rai e torna ad “acculturare”, nel senso letterario più stretto, i telespettatori italiani.
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Il programma, come detto, è una boccata d’ossigeno. Anche perché, in assenza di cinema e teatri aperti, con i concerti che sono un miraggio, i recital che sono una chimera, le rassegne letterarie ferme al palo – ove non in streaming – avere i protagonisti dello spettacolo tricolore sul palco del Teatro Sistina di Roma è quanto mai importante. Non solamente per l’intrattenimento di chi è dall’altra parte dello schermo, quanto anche e soprattutto per mantenere viva l’attenzione su un’universo, quello artistico, che da troppi mesi vive nella difficoltà estrema. E poi ci sono i messaggi che dal nobile palcoscenico capitolino si elevano.
Lino Guanciale è stato tra i protagonisti dell’ultima puntata. Ha recitato un estratto di “Dialoghi di profughi” di Bertolt Brecht, accompagnato al violino dalla musicista Renata Lackó. “L’emigrazione è la miglior scuola di dialettica. I profughi sono dialettici più perspicaci. Sono profughi in seguito a dei cambiamenti, e il loro unico oggetto di studio è il cambiamento. Essi sono in grado di dedurre i grandi eventi dai minimi accenni, […] e hanno occhi acutissimi per le contraddizioni. Viva la dialettica!”.
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Memore della propria esperienza dell’esilio, Bertolt Brecht così fotografava, con la consueta lucidità, il rapporto fra discontinuità esistenziale e necessità della metamorfosi, individuando nel soggetto strappato al proprio sistema di abitudini e sicurezze il propulsore ideale del cambiamento politico e culturale.
“Un vero testo della crisi – scrive Lino Guanciale – un vero testo generato da uno stato d’emergenza. Una rappresentazione vivida della balìa cui sono soggette le illusioni di stabilità della civiltà occidentale, soprattutto quando esse servono, coscientemente o meno, a nascondere sotto il tappeto le miserie e le fragilità di un mondo abituato a disprezzare la dialettica come strumento di rigenerazione della democrazia”.
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“Un testo che molto ha da dire, crediamo, a noi orfani della fine della storia, cui la pandemia ha consegnato l’epifania di una dimensione di precarietà le cui radici – lo stiamo apprendendo con forse troppo colpevole sorpresa – sono in realtà molto più profonde di quanto potesse sembrare. Un orizzonte problematico senza precedenti, cui rispondere con le più varie forme di resistenza estetica e culturale messe a disposizione dalla complessità del linguaggio teatrale, proprio come ci pare avvenga al Brecht di quest’opera».
Qui il video dell’esibizione:
https://www.facebook.com/nuria.a.martin.7/videos/10224854126088607