L’Eurovision è il “Giochi senza Frontiere” dei festival musicali
Ci siamo, questa sera avrà inizio la settimana della gara non sportiva più seguita al mondo: l’Eurovision Song Contest.
Giunta alla sua sessantottesima edizione, la competizione canora è diventata un appuntamento fisso dello show-biz mondiale, in cui la musica non è la sola protagonista: a partire dalla sfilata sul Turquoise Carpet della domenica precedente, l’Eurovision è oggi una vera e propria forma di spettacolo in cui l’occhio rivendica bene la sua parte.
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Un esito che sembrerebbe scontato se si pensa che l’obiettivo iniziale era proprio la diretta televisiva, per differenziare questa gara da quelle internazionali trasmesse solo via radio.
A metà degli anni Cinquanta, l’Eurovision Song Contest nacque come un esperimento tecnico del mondo televisivo: la trasmissione in diretta, simultanea e transnazionale che coinvolge l’Europa da quasi 70 anni, all’epoca apparve come un’impresa avanguardista straordinaria.
Forse non tutti sanno che la proposta ufficiale per l’Eurovision Network fu avanzata da Marcel Bezençon, direttore generale della Swiss Broadcasting Corporation, ma l’idea venne proprio dalla Rai, che dal 1951 organizzava già il Festival di Sanremo, trasmesso nel 1955 anche in Belgio, Danimarca, Francia, Italia, Paesi Bassi, Svizzera, Regno Unito e Germania dell’Ovest.
Tuttavia, quello di Sanremo non era l’unico concorso in Italia all’epoca: la Città di Venezia e la Rai organizzarono il Festival Internazionale della Canzone a Venezia. La prima edizione del 1955 includeva concorrenti provenienti da Austria, Belgio, Francia, Italia, Monaco e Paesi Bassi, che presentavano sei brani originali non più lunghi di 3 minuti e mezzo. Le giurie nazionali assegnavano al vincitore il premio Gondola d’oro. Si trattava del primo concorso canoro internazionale al mondo basato sulla partecipazione di organizzazioni nazionali di radiodiffusione.
La prima edizione dell’Eurovision Song Contest si tenne in Svizzera – “nodo” naturale per i trasmettitori terrestri necessari per questo esperimento di trasmissione in diretta transnazionale simultanea – riflettendo la passione internazionale per la cultura popolare italiana: l’evento si tenne nella città italo-svizzera di Lugano e fu quasi completamente in italiano.
La struttura del Festival Internazionale della Canzone di Venezia venne quasi completamente ripresa nell’Eurovision Song Contest, che però prevedeva anche la trasmissione televisiva, oltre a quella esclusivamente radiofonica del concorso veneziano.
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Nei primi anni sembrava ovvio partecipare con canzoni nella propria lingua nativa, ma quando l’evento iniziò a crescere per dimensioni e popolarità, per conquistare il pubblico dei Paesi votanti (tutti tranne il proprio), i cantautori cominciarono ad optare per un testo più universale e orecchiabile.
Il che potrebbe spiegare la popolarità di discussi brani vincitori dell’Eurovision come “Boom Bang A Bang” di Lulu (Regno Unito, 1969), “La La La” di Massiel (Spagna, 1968), o ancora l’onomatopeica “Toy” di Netta Barzilai (Israele, 2018). Sì, proprio quella che imitava il verso di un pollo.
Gli esempi appena riportati ci fanno notare che non si tratta di un cambio di rotta solo attuale (i nostalgici e il pubblico di nicchia, che denigra tutto ciò che non ascolta, staranno già pensando “non esiste più la vera musica“).
Già a partire dagli anni ’60 l’elemento competitivo iniziava a prevalere sullo spirito di condivisione della musica e sull’esibizione del proprio talento. È l’altra faccia della medaglia rispetto alla “sportività” caratteristica dell’Eurovision: come conquistare gli spettatori degli altre 36 Paesi in gara e del resto del mondo per farsi assegnare gli ambiti 12 punti?
Quando l’obiettivo è colpire e conquistare il pubblico superando l’ostacolo della lingua, le parole e il significato profondo del testo sono spesso sacrificati a favore di un ritmo intuitivo e memorabile e del “colpo d’occhio“. L’Eurovison Song Contest sembra infatti più una gara tra performance che un concorso canoro.
Un cambiamento dovuto anche alla modifica di alcune regole: ad esempio, la possibilità di esibirsi in un’altra lingua, il numero di artisti sul palco (comunque non più di sei), l’inclusione di movimenti di danza e, più recentemente, l’uso di cori (introdotto per ridurre il numero di membri della delegazione necessari per viaggiare durante la pandemia Covid-19). Per non parlare di costumi e scenografie pensati per mandare un messaggio e soprattutto conquistare gli spettatori di tutto il mondo. Al punto che l’atmosfera sul palco della città ospitante diventa quasi carnevalesca.
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La vittoria della svedese Loreen nella scorsa edizione ci ha fatto sperare che la protagonista dell’Eurovision Song Contest possa essere ancora la (buona) musica: la sua “Tattoo” (un titolo pop semplice e diretto, ma soprattutto efficace almeno quanto il ritmo) raccontava un amore talmente forte da restare incollato sulla pelle come un tatuaggio, anzi di penetrare sottopelle e restarci per sempre. Ma viene spontaneo chiedersi: a distanza di un anno, ricordiamo ancora la canzone? O solo l’esibizione della vincitrice del microfono di cristallo, oppressa tra due schermi che rappresentavano una tempesta di sabbia?
Non ci resta che augurarci che questa sessantottesima edizione dell’Eurovision ci regali un perfetto equilibrio tra capacità performative e talenti musicali.
E con un po’ di sano patriottismo auguriamo buona fortuna ad Angelina Mango, ultima vincitrice del Festival di Sanremo, che rappresenterà l’Italia con la sua “La noia“, ottima commistione di sonorità partenopee ed elettroniche, di sapore latino ed energia prorompente.
Ricordiamo, infine, che l’Italia – in quanto uno dei Big Five insieme a Francia, Germania, Regno Unito e Spagna – non gareggerà nelle due semifinali che si terranno questa sera e giovedì, ma accederà direttamente alla finale di sabato 11 maggio. Angelina Mango si esibirà fuori gara (come gli altri Big) nella serata di giovedì, aprendo il televoto per il pubblico italiano.