“Letizia va alla guerra. La suora, la sposa e la puttana”: l’intervista a Tiziano Caputo
Da domani a domenica, al TorBella Monaca, torna quello che, fin dalla sua prima messa in scena, si è guadagnato il riconoscimento di “spettacolo di culto”: “Letizia va alla guerra. La suora, la sposa e la puttana”, ideato e diretto da Adriano Evangelisti e interpretato dalla splendida coppia composta da Tiziano Caputo e Agnese Fallongo.
Dopo aver avuto il piacere di scambiare quattro chiacchiere con quest’ultima poco prima delle repliche dello scorso anno di “…Fino alle stelle!” al De’ Servi, adesso è stata la volta di sentire cosa aveva da dire il primo su questo continuo successo di critica e al botteghino. Buona lettura!
In “Letizia”, come per gli altri due episodi della trilogia, il ruolo svolto dalla musica e dai suoni è tutt’altro che esornativo. Ci spieghi qual è stato il processo nel quale ti sei calato per crearli e dargli forma, soprattutto tenendo in considerazione il fatto di averli dovuti legare alla drammaturgia della Fallongo e alla performance sul palco? E puoi raccontarci anche qual è la tua formazione in quest’ambito?
La gestazione musicale nei nostri tre spettacoli è, nello stesso tempo, molto simile e molto differente. Diciamo che, di base, mi muovo partendo dalle suggestioni, se non proprio da precise indicazioni, contenute nei testi di Agnese e da lì comincio a trovare una direzione. Poi creo tutte quelle piccole sonorizzazioni che servono in scena e comincio anche ad immaginare un ruolo non convenzionale per gli strumenti. Cerco cioè di “fargli fare” cose che uno non si aspetterebbe da loro, sparare ad esempio. Quando parlo di gestazione musicale, mi riferisco anche a quell’opera di “sottrazione sonora” che si può apprezzare ne “I Mezzalira”, dove gli strumenti scompaiono per lasciar spazio alle voci, a rumori naturali e ai silenzi.
Per quanto riguarda la mia formazione in ambito, io nasco come chitarrista elettrico e acustico con il pallino della composizione. Quando a 20 anni ho scoperto e cominciato a frequentare il teatro, mi sono subito posto l’obiettivo di saldare la mia passione per le sette note con quella della recitazione e, per quanto all’inizio non sia stato facile legare anche a livello di prassi le due cose, poi ho trovato una mia strada e sono molto contento dei risultati ottenuti.
In questo spettacolo, sempre come negli altri due, vi interessate alla storia passata del nostro Paese preferendo però raccontarla attraverso figure popolari e avvenimenti poco battuti, piuttosto che servirvi di personaggi o episodi famosi. Ci spieghi perché e su cosa volete far ragionare i vostri spettatori quando cala il sipario?
Io e Agnese ci siamo trovati subito dal punto di vista artistico e personale, nonostante le nostre differenze caratteriali e le nostre differenti emotività. A noi piace raccontare le storie degli ultimi, chiunque essi siano. In questo ci siamo trovati fin dal primo momento. In “Letizia”, per esempio, non parliamo di battaglie o di soldati, ma delle donne e di come vivevano nel periodo delle due guerre mondiali, un argomento non molto indagato rispetto ad altri.
Noi non ci sentiamo spinti da chissà quale vocazione, a noi interessa semplicemente raccontare, far vedere le persone vere (e questa è anche la ragione per la quale prima della scrittura delle nostre drammaturgie facciamo diverse interviste documentative alle persone). Il teatro deve essere come uno specchio: il pubblico deve potercisi riconoscere. E questa è una cosa che vale in ogni angolo del mondo, è un’esigenza, un’urgenza, universale.
Una suora, una sposa e una puttana. Tre donne in apparenza molto diverse tra loro che poi vanno invece a creare una sorta di quadro di insieme sulla figura femminile a cavallo delle guerre mondiali: quanto sono diverse rispetto alle donne di oggi e quanto invece gli assomigliano?
Ci sono molti cliché che vanno in giro sui cosiddetti “tempi andati”, no? Sono sempre migliori, come migliori sono sempre creduti coloro che li hanno vissuto. Questo, in un certo qual modo, vale anche nella percezione delle donne, che molti pensano essere state più coraggiose quei dì perché magari portavano le gerle al fronte come accade nel nostro spettacolo. In realtà quello che conta è sempre e soltanto il contesto, ed è per questo che anche oggi abbiamo donne molto coraggiose, che si ribellano a stereotipi e violenze. Perché non dobbiamo dimenticarci che ancora di questi tempi, in tante case, purtroppo, ci sono tante piccole guerre. Quindi dico che bisognerebbe sempre tener ben presente il contesto di riferimento quando si toccano certi argomenti. Ecco, questo credo che sia il nostro punto di vista.
Il teatro che ormai da anni portate in giro su e giù lo Stivale è fatto di vostri testi, di pochi orpelli e di una vocazione genuinamente popolare. Da dove nasce questa scelta e qual è l’obiettivo, o gli obiettivi, che vi prefiggete di raggiungere attraverso di essa? Pensi che un giorno tornerai, tornerete ad interpretare qualche pièce più “classica” o proseguirete in questo vostro tipo di ricerca personale?
A livello formale, ci potrebbero essere dei cambiamenti, senza dubbio, ma per quel che riguarda l’idea di fondo noi vogliamo fare teatro nostro, originale. Non si tratta di escludere evoluzioni, ma di rispettare le nostre inclinazioni, che sono quelle che ho cercato di spiegarti prima. Stesso discorso anche per gli obiettivi: a noi interessa raccontare la gente.
Sempre rimanendo in argomento: il sodalizio artistico tra te e la Fallongo, e tra voi due e i registi Raffaele Latagliata e Adriano Evangelisti, è ormai longevo. Ci puoi raccontare come si mette in moto la vostra “macchina spettacolare” e come riuscite ad andare d’accordo e a lavorare in sinergia?
Noi ci consideriamo come una sorta di doppia coppia che, dopo essersi trovata, ha dato vita ad un collettivo di quattro persone che adesso lavorano in completa sinergia. Essersi incontrati è stata una svolta, anche considerando il fatto che Raffaele e Adriano hanno delle maniere di dirigere e intendere il teatro molto personali. Tra noi c’è senza dubbio forte complementarità a prescindere dai diversi ruoli. E questa è una cosa che aiuta, perché già prima che comincino le prove di uno spettacolo, si stabilisce tra noi una certa armonia e riusciamo a capire in che direzione vogliamo andare.
È iniziato il 2023 e già diversi mesi, ormai, siete impegnatissimi nel proporre in ogni angolo del Paese i vostri lavori. Che differenze hai notato, a 360 gradi, intendo, rispetto al periodo che ha preceduto la pandemia e quale pensi sarà il ruolo che il teatro potrà assolvere nella tanto invocata “riedificazione” di un nuovo tessuto sociale?
Ho riscontrato che il tanto invocato “cambiamento” che il post lockdown avrebbe dovuto innescare non c’è stato. Di sicuro non a teatro, dove certe difficoltà sono rimaste le stesse. Detto questo, io credo che si debba sempre andare in cerca di piccole luci in questo mondo di tenebre! E allora ti dico che la pandemia ha anche dato spazio a tante voci nuove che lasciano ben sperare. Io penso poi che sarebbe opportuno non identificare mai la parola “rinascita”, tanto usata, se non abusata, nei due anni precedenti, con la parola “perfezione”, perché anche un eventuale periodo di rinascita sarebbe sempre caratterizzato da luci e ombre. Il nostro compito, e quindi il compito del teatro, è quello di rannicchiarsi e far rannicchiare le persone che vengono a vederti lì dove c’è la luce.
In chiusura: il sogno nel cassetto di Tiziano Caputo per il suo futuro prossimo dal punto di vista lavorativo.
Il mio cassetto devo dire che è già mezzo aperto, perché sento che il mio sogno l’ho già in parte realizzato. Nell’immediato, però, ci terrei tantissimo a portare in scena un testo che ho scritto durante il già citato periodo di lockdown. Per scriverlo, mi sono ispirati alla storia di mio padre che è cresciuto negli anni Cinquanta del secolo scorso nelle baracche del Quarticciolo qua a Roma. Partendo da lì ho immaginato le vicende di un eroe “normale” e ho già preparato un tema musicale che dovrebbe essere molto “portante” nell’economia complessiva del racconto. Non voglio dire di più, però. Spero presto di poterlo far conoscere.