“Le voci sole”, la svolta drammatica di Giovanni Storti – la recensione
Ed eccoci a “Le voci Sole“. Premessa: c’è un momento, nella carriera di molti comici che hanno superato la sessantina. Squilla il telefono, è il produttore. E pensi: ecco qui un’altra bella commedia per tutta la famiglia. E invece no. Un regista, spesso un nome giovane, ti propone un ruolo drammatico, il primo e da protagonista. È successo tantissime volte, i francesi del dopoguerra hanno aperto le danze. In Italia è impossibile non ricordare Walter Chiari in “Romance”, Massimo Boldi in “Festival” o Massimo Troisi ne “Il postino”. Più di recente, il magnifico Adam Sandler in “Diamanti grezzi”, qualche anno prima già in “Ubriaco d’amore” e adesso in “Hustle”, su Netflix.
Il comico che si reinventa drammatico, supportato da un bel paio di rughe, lo sguardo stanco, i capelli bianchi, rende sempre sul grande schermo. Forse, la nostra voglia di conoscere un aspetto più buio di quel personaggio che ci fa tanta simpatia: e quando è triste, com’è? Che espressioni fa? Il cinema è finzione, e questo è un fatto, ma ci piace illuderci che tutto ciò che vediamo sullo schermo sia vero, compresa e forse soprattutto la tristezza, che fa parte di noi come tutto il resto.
Giovanni Storti è proprio uno di quei nomi che, quando lo senti nominare, ti fa pensare solo a cose divertenti. Anche se una particina drammatica l’aveva già fatta, in un corto di qualche anno fa intitolato “Magic Alps”, di Andrea Brusa e Marco Scotuzzi. Sono gli stessi registi di questo “Le voci sole”, che però è un lungometraggio di un’ora e un quarto. Non tantissimo, per fortuna. Al netto dei difetti del film, ci rassicura pensare che in Italia c’è ancora qualcuno che sa stare sotto la soglia dell’ora e mezza.
La trama
A causa della pandemia, Giovanni (Giovanni Storti) si ritrova senza lavoro. Costretto a emigrare in Polonia per cercare una nuova occupazione, resta in contatto con la moglie (Alessandra Faiella) e il figlio (Davide Calgaro) grazie a lunghe videochiamate quotidiane in cui la donna gli insegna a cucinare da remoto. Quando una di queste telefonate diventa inaspettatamente virale in rete, la coppia raggiunge una popolarità che pare la soluzione di tutti i loro problemi economici.
Due interni, un esterno. Una scelta stilistica, forse, ma economica sicuramente. I tre personaggi citati sono gli unici attori in scena e comunicano soltanto attraverso il telefono, in videochiamata o con le numerosissime note audio che sentiamo in voice over mentre, sullo schermo, passano le immagini della fonderia. Fotografia in pieno stile documentario, inquadrature per lo più fisse, una regia lineare come la storia che racconta. Questo non è per forza un male, sia chiaro. Il film si lascia seguire, complice la manciata di minuti in cui, per fortuna, inizia e finisce questa piccola parabola famigliare.
Tuttavia, al termine della visione, si ha la sensazione di una storia che si riavvolge su sé stessa, come se tornasse al punto di partenza o forse, per meglio dire, come se non si fosse mossa affatto. Certamente, come ogni film che si rispetti, c’è il famoso incidente scatenante, per dirla alla McKee, che arriva un po’ ingiustificato, pretestuoso, un buchetto della sceneggiatura per accendere la miccia.
Nei momenti iniziali, quelli più concitati, sembra davvero che qualcosa nelle vite dei personaggi stia accadendo davvero, ma è evidente come il grande assente in questa pellicola sia la mancanza di sviluppo delle loro caratterizzazioni. Giovanni (il personaggio) è lo stesso dall’inizio alla fine. Scettico a proposito dei social media, contrariamente alla moglie e al figlio che ne sono entusiasti, quasi inghiottiti dalla macchina della popolarità sul web. La sceneggiatura non fa nulla per dare motore a nessun dialogo, nessuno scambio di battute.
Stupisce pensare che uno sceneggiatore giovane come Brusa (39 anni) scivoli così drammaticamente sul linguaggio dei social, facendo sembrare i dialoghi presi direttamente da una puntata dell’eredità, di quelle con le domande sul mondo dei giovani con Insinna tutto sudato che si dà da solo del dinosauro ma vorrebbe mandare tutti a fanculo. Forse sbaglio a considerare i trentenni ancora come giovani?
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Giovanni Storti, un uomo a cui si vuole un mondo di bene e che per me significa infanzia, felicità, cuoricini sdolcinati, tutto l’amore possibile, sembra perennemente spaesato. Chiariamoci, lui è un attore fenomenale, si mangia Aldo e Giacomo senza problemi ed è l’unico del trio ad essere invecchiato senza dimenticare come si sta in scena. Non è neanche un brutto attore drammatico, forse è vero problema è una sceneggiatura troppo debole, un personaggio anonimo, un secondario in un episodio riempitivo dei Cesaroni, a cui lui non ha saputo dare nessun grande contributo.
Menzione d’onore per una bellissima scena in cui, sotto le immagini della fusione dei metalli nella fonderia, passano le note audio della moglie isterica che parla di visual, followers, partnership. I nuovi lavori, quelli giovani, che sono inferno tanto quanto quelli “vecchi”, quelli per i quali devi “sporcarti le mani”, come dice Giovanni nel film. Non si scappa dalla macchina, il senso del film è un po’ questo. Bastavano 2 minuti, una scena.
Il film, che si è aggiudicato il Gran Premio della Giuria al Seattle International Film Festival, è stato presentato in anteprima italiane in concorso al 68.mo Taormina Film Fest, ma uscirà nelle sale il 4, 5 e 6 luglio distribuito da Medusa Film.
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