“L’arte dell’esperienza”: l’intervista all’autore e attore Marco Bonini
Il 19 maggio uscirà “L’arte dell’esperienza” di Marco Bonini. Autore e attore di cinema, teatro e televisione, vanta oltre 80 presenze tra piccolo e grande schermo. Dopo aver ancora conquistato milioni di fan con il film “Lasciarsi un giorno a Roma” (di cui è anche sceneggiatore insieme a Edoardo Leo) e nella fiction Rai “Cuori”, Bonini arriva nelle librerie con il suo secondo libro. “L’arte dell’esperienza” sarà presentato al “Salone Internazionale del libro” di Torino il 21 maggio.
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L’INTERVISTA
Il 19 maggio uscirà “L’arte dell’esperienza”: come potremmo presentarlo?
Questo mio libro non è un romanzo, ma un saggio con l’obiettivo di raccontare la funzione pubblica del lavoro dell’interprete. È un saggio divulgativo: nonostante il punto di vista tecnico sull’arte della recitazione, spiega a tutti la funzione pubblica e antropologica della necessità di rappresentare l’esperienza umana. Il libro si compone di due parti. La prima parte appunto spiega questo bisogno primordiale: tutti noi ci interroghiamo sul senso della nostra vita e da soli non siamo in grado di darci delle risposte. Anzi in particolare non siamo sicuri dell’attendibilità delle nostre domande. Qui interviene l’artista che rappresenta l’esperienza propria e altrui in forma simbolica, emotiva e sintetica su un palcoscenico: una posizione in qualche modo privilegiata che ci rassicura intanto di non essere soli al mondo (quello che succede a me non succede solo a me ma succede a tutti i miei simili). Basti pensare a quello che è successo durante il lockdown: dopo due settimane abbiamo tutti sentito la necessità di aprire la finestra e cantare l’inno nazionale. In quel canto ognuno è stato attore per il dirimpettaio.
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La seconda parte riflette sulla potenzialità pedagogica del training dell’attore: le tecniche di rappresentazione pubblica e di utilizzo del linguaggio sono una competenza che dovrebbe essere di dominio pubblico. Come impariamo a leggere e scrivere anche se non tutti diventeremo giornalisti o scrittori, dovremmo avere dei rudimenti di recitazione anche se non tutti diventeremo degli attori e delle attrici. Imparare a conoscere, riconoscere e gestire le emozioni è una competenza fondamentale per risolvere problemi sociali per cui non basta una repressione legislativa. Sono membro dell’associazione Bagus che promuove (anche presso il Ministero della Cultura) l’educazione emotiva nelle scuole come materia curricolare, secondo un progetto definito della nostra terapista Cristiana Clementi.
In sintesi non è un libro scritto da un attori per altri (aspiranti e non) attori, ma per il resto della società:per far capire la funzione pubblica del nostro lavoro.
Cosa puoi raccontarci del processo creativo di questo libro?
Ti confesserò che tutto ha inizio dalla mia tesi di laurea: nel 1996 mi sono laureato in Filosofia ed Estetica con una tesi sull’esperienza dell’attore da un punto di vista filosofico. Poi nel 2020 sono stato uno dei soci fondatori di U.N.I.T.A. (Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo) e membro del direttivo per 15 mesi. Così ho capito che quell’esperienza su cui mi ero concentrato diciamo dal punto di vista filosofico circa venticinque anni prima ha un riflesso sociale molto importante. Inoltre durante la pandemia il Presidente del Consiglio ha paragonato la categoria degli attori all’intrattenimento di una sala bingo. Insomma tanti pezzetti si sono riuniti e ho deciso di fare un redrafting della tesi: l’ho resa più divulgativa eliminando la parte più accademica e ho approfondito l’aspetto sociale grazie alla mia esperienza “pratica”. Il saggio ha vinto il premio InediTO Torino nel 2020 e proprio Elisabetta Sgarbi (La Nave di Teseo) mi ha richiamato nel giro di una settimana per pubblicarlo: è stata un grande onore ed una sorpresa.
Nel prologo del tuo libro il lettore può riconoscersi nelle parole complici di uno scrittore che prima di tutto è un lettore. Ma paradossalmente si sente quasi colto sul fatto, come osservato e quasi in dovere di andare verso la cassa con quel sorrisetto di cui parli. Quanto è importante il fenomeno della catarsi nel tuo approccio al lettore come scrittore e allo spettatore come attore?
Il rapporto che c’è tra artista, opera d’arte e pubblico è un rapporto necessario, inscindibile. La difficoltà dell’artista sta nel trovare il senso profondo dell’identità collettiva di cui egli stesso è parte. Kant diceva che “l’arte è bella e soggettivamente universale”: l’arte è prodotta da un soggetto e riguarda se stesso ma diventa bella quando quella soggettività è così profonda da toccare la natura umana e quindi essere comune a tutti in quanto esseri umani. Questo è il lavoro che l’attore deve fare verso il pubblico ma partendo dal suo io: deve cercare la propria parte più profonda che riguarda tutti. Nel caso della recitazione il pubblico non viene a vedere noi attori, ma viene a vedere sé. Se si riconosce, lo spettatore ama l’attore, l’autore, il cantante, il pittore perché in realtà ama se stesso. Solo quando questo lavoro funziona, il circolo della comunicazione artista – opera d’arte – pubblico si chiude e la funzione pubblica è compiuta.
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Nel 2019 hai pubblicato il tuo primo libro: come ti sei scoperto scrittore? Cosa ti ha spinto a crederci e renderlo realtà?
La mia genesi artistica è multiforme e sincronica. In primo liceo ho sentito la chiamata dell’arte: ho iniziato a studiare danza classica e canto, a scrivere e a fare politica. La scrittura si affianca parallelamente a tutte queste strade ma in forma privata fin quando mi sono avvicinato alla scrittura cinematografica: vedevo in giro delle storie che secondo me dovevano essere raccontate e provavo a convincere gli altri a farlo, finché ho iniziato a farlo di persona. Ma nel mio immaginario si trattava di una scrittura minore, più accessibile perché non mi sentivo all’altezza di essere nella stessa categoria previdenziale di Calvino e Dostoevskij. Così ho preso coraggio e ho scritto “Billo – Il grand Dakhaar”, “Diciotto anni dopo”… e purtroppo per voi è andata abbastanza bene! Nel 2017 ho scritto un racconto per il progetto di beneficenza di “Every child is my child” con Anna Foglietta e la casa editrice Longanesi mi ha chiesto di mandargli qualcosa. Dei quattro soggetti cinematografici (che di fatto sono racconti) che avevo mandato, hanno scelto quello che poi è diventato “Se ami qualcuno dillo”, il mio primo romanzo. Ora uscirà “L’arte dell’esperienza” e via, mi sa che alla fine ci credo pure io insomma! Pensa che io ho vinto più premi come scrittore che non come attore… quindi forse questo dovrebbe essere un’indicazione! (ride, ndr)
Tra danza, teatro, cinema, televisione, scrittura, sceneggiatura, regia e produzione accumuli sempre più esperienza. In quale forma artistica ti riconosci di più?
È una domanda difficile perché sono tutte diverse ma molto simili: alla fine l’obiettivo è raccontare delle storie. Che una storia venga scritta, prodotta, recitata, diretta o semplicemente raccontata è relativo: l’importante è che arrivi. E qui torna la valenza simbolica dello storytelling: che sia la Bibbia, che sia l’Odissea, che sia Se ami qualcuno dillo (in una proporzione centesimale), lo scopo del raccontare una storia è produrre un cambiamento nella coscienza del pubblico. Per tornare a “L’arte dell’esperienza”: noi abbiamo un disperato bisogno di storie in cui riconoscerci. Vasco Rossi (che secondo me è uno dei grandi filosofi contemporanei) canta “Voglio trovare un senso a questa storia, anche se questa storia un senso non ce l’ha”. Quindi forse diciamo che mi posso riconoscere nella “forma” del cantastorie.
Quali esperienze hanno maggiormente segnato il tuo percorso artistico (e non) e ti hanno portato ad essere il Marco Bonini di oggi? Tra queste ci sono anche delle letture?
Sicuramente tutte: anche una partita a calcetto con gli amici ti può cambiare la vita, se riesci a leggerla. In fondo tutto sta nel cercare un senso alle cose e nel saperlo cogliere: insomma la capacità estetica di cui parlava Kant. Le letture che mi hanno cambiato sono “Il cavaliere inesistente” di Calvino e “Memorie dal sottosuolo” di Dostoevskij: la fantasia e la logica, il surreale del mondo calviniano e lo scavo cinico, ironico e crudele di Dostoevskij per quanto adesso qualcuno voglia non farlo studiare più… sarebbe un vero sacrilegio perché i grandi autori della letteratura mondiale non appartengono ad un luogo, ma all’umanità.