L’arte come esigenza: la storia di Antonio Ligabue
Dopo il trionfo del lungometraggio “Volevo nascondermi” alla sessantaseiesima edizione del David di Donatello, la controversa personalità dell’artista Antonio Ligabue è tornata alla ribalta in tutta la sua potenza. L’interpretazione magistrale dell’attore Elio Germano ha evidenziato il profondo tormento esistenziale del pittore italo-elvetico e la sua innata capacità nel trasformare dolore ed emozioni in opere d’arte tangibili. La natura istintiva e quasi animalesca delle sue pennellate hanno diviso e messo in crisi i più importanti critici del Novecento, consapevoli della forza dirompente del suo linguaggio figurativo, ma decisamente restii nel collocarlo in qualsivoglia filone contemporaneo.
L’INFANZIA A ZURIGO E L’ESILIO A GUALTIERI
Antonio Ligabue nasce a Zurigo il 18 dicembre 1899 alll’Ospedale delle Donne, una struttura che si occupa di giovani indigenti e ragazze madri. Dopo pochi mesi viene affidato alla famiglia Gobel che lo adotta ufficiosamente per sottrarlo ad un’ineluttabile condizione di povertà. Nel 1901, nella città di Amrisweil, la madre naturale Maria Elisabetta Costa, convola a nozze con l’emigrato Bonfiglio Laccabue, il quale riconosce il bambino come suo legittimo erede. Antonio tuttavia non instaurerà mai un reale rapporto con la famiglia d’origine (in età adulta modificherà anche il cognome in Ligabue), preferendo le cure amorevoli della mamma putativa Elise Gobel. La sua infanzia e la sua adolescenza si rivelano molto travagliate: affetto da rachitismo, difficoltà relazionali, scatti d’ira e forme di autolesionismo, viene spedito più volte in istituti scolastici per ragazzi disagiati.
Nel 1917 subisce il suo primo ricovero in un ospedale psichiatrico e nel 1919 viene allontanato dai genitori adottivi perché troppo violento. Scortato dai carabinieri, viene spedito d’ufficio a Gualtieri, il paese natio del Laccabue, in provincia di Reggio Emilia. Accolto con iniziale diffidenza dagli abitanti del luogo a causa delle sue manie e del suo linguaggio poco comprensibile – un misto tra tedesco e dialetto emiliano- Ligabue vive di espedienti, accettando umili lavori da manovale e dormendo spesso all’addiaccio nei boschi intorno al Lungo Po.
In questo ambiente campestre e selvaggio Antonio ha modo di osservare la flora e la fauna fluviale e di esercitare la passione che lo accompagna sin da bambino, quella per il disegno e la creazione di manufatti. Ligabue così si ritrova a riprodurre animali sulle più disparate superfici, dai muri degli edifici in Piazza Nuova ai tovaglioli delle locande in cui chiede ospitalità. Non solo, spesso raccoglie l’argilla nei pressi del fiume per realizzare piccole sculture di gufi, volatili, serpenti ma anche animali esotici che probabilmente ha visto in qualche spettacolo circense o sulle pagine di alcuni libri illustrati. Il suo innato talento per il disegno e la scultura viene ben presto notato dagli abitanti di Gualtieri, tra cui la moglie dello scultore Renato Marino Mazzacurati, allora operante a Roma.
OPERE E CRITICA ARTISTICA
Nel novembre 1928 Mazzacurati torna appositamente a Gualtieri per conoscere Ligabue, scoprendo in lui un artista dalle grandi potenzialità espressive; tenta di superare la sua iniziale ritrosia insegnandogli l’uso dei colori a olio e infine gli propone di seguirlo a Roma.
Nella Capitale il genio sregolato di Ligabue trova terreno fertile, viene notato dal mondo accademico e anche altri artisti, come Arnaldo Bartoli e Andrea Mozzali, si avvicinano a lui dal punto di vista professionale e umano. La critica dell’epoca si divide tra chi rifiuta di considerare i suoi lavori vera arte e chi vede in lui uno tra i massimi esponenti del genere Naif, ossia quella pittura innata e istintiva, di stampo popolare, non sorretta da alcun tipo di formazione scolastica.
Oggigiorno il mondo dell’arte si sta battendo per conferire a Ligabue un riconoscimento artistico e scientifico ufficiale. Pur considerato un “outsider”, Antonio si avvicina allo stile dei Fauves per l’applicazione pura e materica del colore ma anche, più in generale, all’Espressionismo per l’uso vorticoso e bidimensionale delle linee e per la grande attenzione alla sfera emotiva e istintiva dei soggetti ritratti.
La sua vasta produzione, che va dal 1927 al 1965, anno della sua morte, si focalizza principalmente su due tematiche principali: la fauna selvatica e l’autoritratto.
L’amore per gli animali si esplica nella riproduzione di volpi, galline, conigli, serpenti ma anche di animali esotici quali tigri, leopardi o gorilla, per lo più colti nell’atto di ghermire la preda; si vedano ad esempio i celebri Tigre assalita da un serpente (1952) e Gorilla con donna (1957-58)
Per quanto concerne gli autoritratti, caratterizzanti soprattutto l’ultima fase della sua esistenza, Ligabue si rappresenta spesso all’aperto, di tre quarti e con uno sguardo intenso rivolto allo spettatore. Gli occhi, quasi sempre tratteggiati da pennellate pure, sembrano trasmettere la profonda solitudine che pervade l’artista, diviso tra il suo profondo desiderio di comunicare con il mondo circostante e la difficoltà nel controllare la sua sfera emotiva.
IL MESSAGGIO PER LE GENERAZIONI SUCCESSIVE
La consacrazione artistica di Ligabue avviene nel 1962 con l’allestimento di una mostra personale alla Galleria Barcaccia di Roma. Da quel momento le sue opere iniziano ad essere acquistate in gran numero da appassionati e collezionisti, garantendogli finalmente una certa agiatezza economica. Anche al culmine della fama però Antonio rimane uomo semplice, dai piaceri genuini, e riversa quasi tutti i suoi guadagni nell’acquisto di svariate motociclette.
Il destino crudele tuttavia gli gioca un ultimo terribile scherzo poiché, proprio sul finire del 1962, viene colpito da ictus cerebrale con conseguente emiparesi del lato destro. Dopo tre anni di sofferenze si spegne il 27 Maggio 1965 al ricovero per mendicanti di Gualtieri.
Come ci lascia intendere il Mazzacurati, l’arte del Ligabue è assolutamente istintiva, primordiale, un moto dell’animo trasformato in manufatto. Per dipingere l’artista non utilizzava disegni preparatori e iniziava dal particolare che più lo colpiva per poi estendersi ad una visione d’insieme. Spesso disegnava a memoria, riportando particolari con dovizia quasi fotografica, seppur a volte a discapito delle proporzioni. Al di là di qualsiasi retaggio accademico, Antonio Ligabue ha avuto il merito di mostrare l’arte non come virtuosismo tecnico bensì come esigenza, l’esigenza di esistere e non di apparire.
Anche per questo numerosi sono i tributi del settore artistico al pittore svizzero, spesso identificato come simbolo della fragilità umana che diventa possibilità. Tra questi ricordiamo il grande sceneggiato Rai del 1977 “Ligabue” con Flavio Bucci, la canzone dei Nomadi “Dam un bes” e il romanzo di Carlo Vulpio “Il genio infelice”.
Riprendendo le parole dello storico dell’arte Marzio Dell’Acqua: “Alla fine ha vinto lui. Ha avuto ragione il diseredato, l’emarginato, l’artista diverso”.
di Francesca Massaro