L’anteprima di “Avetrana – Qui non è Hollywood” tra critiche e lodi: le parole del regista e del cast
Negli ultimi mesi è diventata un vero e proprio caso mediatico e ha spaccato in due la critica ancora prima di essere vista: alla Festa del Cinema di Roma è stata presentata in anteprima la miniserie “Avetrana – Qui non è Hollywood”.
Già la pubblicazione della locandina e del trailer avevano causato grandi lamentele: da un lato chi accusava i produttori di voler lucrare su una tragedia ancora troppo fresca nella memoria degli italiani e dall’altro chi, più concretamente, si preoccupava di una eccessivamente drammatizzata narrazione dei fatti e di una cattiva pubblicità per la località pugliese.
Il pubblico della Festa del Cinema di Roma ha potuto assistere alla proiezione dei primi due episodi su quattro in anteprima: la miniserie diretta da Pippo Mezzapesa sarà disponibile su Disney+ dal prossimo 25 ottobre.
La tragica storia di Sarah Scazzi – ma soprattutto le cause e conseguenze dell’omicidio – vengono narrati in quattro episodi dalla durata di 60 minuti, ognuno dedicato ad un membro in particolare della famiglia protagonista di questa cruenta tragedia. I titoli delle puntate sono, in ordine, “Sarah”, “Sabrina”, “Michele” e “Cosima”.
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Nel primo episodio conosciamo i protagonisti della vicenda a partire da uno spiacevole scenario – una verità non troppo nascosta finora, ma che una volta riproposta sullo schermo, ha destato l’indignazione del sindaco e degli abitanti di Avetrana: l’arrivo di autobus di turisti che ripercorrono, grazie a guide locali, le tappe e i luoghi fondamentali nella storia di Sarah Scazzi come una sorta di macabro e grottesco pellegrinaggio. Mentre i curiosi scattano indiscrete fotografie, la camera si sposta sulle parole del sottotitolo: la scritta realizzata con bomboletta spray “Qui non è Hollywood” campeggia sulla parete di casa Serrano- Misseri.
Questa che appare come una schietta denuncia, in realtà potrebbe sembrare un’incongruenza: la morbosa curiosità della gente e la drammatizzazione denunciati in questa e altre scene, non si riscontrano proprio nell’ideazione e realizzazione di una miniserie da diffondere in streaming?
In seguito alla visione in anteprima dei primi due episodi, in conferenza stampa il regista Pippo Mezzapesa ha spiegato quale fosse l’obiettivo, il cuore del progetto:
“Il presupposto di questa serie è quello di avvicinarci il più possibile all’umanità di questa storia. Sin dall’inizio abbiamo cercato tutti – dagli sceneggiatori alla produzione, dalla regia al cast, ai collaboratori – di entrare nel profondo di questa vicenda. Di entrarci con grazia, rimanendo nei confini del verosimile e rispettando le persone che questa vicenda racconta, ma sviscerandola. Quello che ci interessava sin dall’inizio era esplorare la normalità del contesto da cui tutto è scaturito ed esplorare anche l’abnormità che poi questo delitto ha suscitato. Per citare la strofa della canzone composta da Marracash per i titoli di coda: ‘Sai che il male è banale, è comprenderlo che è complesso’. Noi abbiamo cercato di esplorare la difficoltà di questa comprensione del male.”
Il regista ha subito chiarito la sua posizione:
“Credo che abbiamo ben aggirato il rischio di approcciarsi in modo morboso a questa storia. Il nostro intento è stato quello di andare oltre i personaggi per esplorarne anche le fragilità. Un altro pericolo era quello di avere un coinvolgimento emotivo troppo forte che minasse la libertà di noi narratori, ma noi abbiamo raccontato dei fatti emersi dalla verità giudiziale – da tre sentenze -. Ci siamo limitati a quello, non abbiamo in alcun modo voluto aprire altre strade. Non siamo giudici, non siamo avvocati (anche se io ho studiato legge) e non siamo giornalisti di inchiesta. Ci interessava raccontare quello che emerso e andare ad esplorarne cause e conseguenze.
È sacrosanto ribadire il nostro punto di partenza: non limitarci affatto alla cronaca ma raccontare una famiglia che si disgrega fino in fondo, in un conflitto che poi diventa insanabile. Non è un caso che l’ultimo episodio sia quello di Cosima, che affronta un’impossibile scelta tra una figlia adorata una nipote amatissima. Abbiamo fatti nostri i personaggi con tutta l’onestà e l’umiltà che abbiamo potuto avere, sapendo benissimo che è un argomento dolorosissimo. Noi non possiamo fare altro che fare il nostro lavoro di narratori.”
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Su questo punto si concentra l’intervento del produttore Matteo Rovere (“Avetrana – Qui non è Hollywood” è una produzione Groenlandia), quasi un’apologia del diritto alla narrazione. Ecco la sua dichiarazione integrale:
“È bene interrogarsi su come il male debba e possa essere rappresentato: la complessità della contemporaneità è un esercizio che, anche a livello produttivo e artistico, facciamo continuamente. Io penso che sia un nostro “diritto di narratori” farlo, perché noi rappresentiamo il mondo nel quale viviamo con la sua eterogeneità, con la sua complessità. E non credo sia compito del racconto costruire un mondo in cui il male non esiste, anzi io rifuggo molto l’eccessiva pacificazione del prodotto seriale, il fatto di addormentare un po’ le menti telespettatrici degli spettatori, creando un rimosso. Io credo anzi che la serialità italiana debba fare quel percorso che il linguaggio internazionale fa continuamente, andando a scandagliare tutti i livelli della società, senza spaventarsi e anzi utilizzando l’audiovisivo come punto di partenza per un’analisi critica.
In questo senso bisogna ringraziare Disney, oltre che lo staff di Groenlandia, perché abbiamo trovato un player con un approccio internazionale, che non ha paura di costruire il racconto sul nostro presente sulla nostra contemporaneità. Esattamente come le centinaia di racconti che arrivano dall’estero, finalmente anche in Italia tocchiamo qualcosa che riguarda in maniera profonda il nostro presente. Ci siamo interrogati su come questo delitto efferato e questa tragedia potessero essere raccontate e ci siamo risposti che la mediazione artistica – penso spesso a ‘Elephant’, il film di Gus Van Sant – possa essere anche la partenza del giudizio critico di chi vede.“
Dalla visione dei primi due episodi, appare chiaro che la serie di Mezzapesa vuole essere un ritratto quanto più oggettivo ma anche profondo e completo della famiglia di Sarah Scazzi e del contesto in cui si è prodotta la tragedia. Un ritratto che risulta ben autentico grazie all’uso del dialetto caratteristico del piccolo comune pugliese, ma anche grazie alla ricostruzione del contesto dell’estate 2010: dal ritornello di “Tranne te” di Fabri Fibra ai braccialetti con le perline, dalle serie tv su Italia Uno alle scritte sui diari.
Così ci caliamo perfettamente nelle calde giornate di agosto di un paesino in riva al mare, appena prima che conosca la famigerata popolarità per la tragedia che quasi quindici anni fa sconvolse l’Italia intera. Anche se si percepisce un qualcosa di strano nell’aria: in primis le scene di luce sono caratterizzate da una fotografia quasi eccessivamente soleggiata – quasi gialla si potrebbe dire – per enfatizzare il contrasto con le atmosfere più cupe e tragiche che seguiranno.
Inoltre l’intero primo episodio, ambientato nei giorni e nelle ore prima dell’omicidio, restituisce un clima di forte tensione, quasi come se il personaggio della piccola Sarah fosse consapevole del destino cui andava incontro e apparisse continuamente in allerta: stacchi improvvisi e continui primi piani, musica di tensione, lunghe soggettive, porte fissate a lungo prima di svolgere semplici azioni quotidiane, personaggi inseguiti e altri inquadrati sulla nuca. Insomma un’atmosfera che sembra quasi esulare dal genere del docufilm, soprattutto nella fase precedente il crimine.
Certamente, in questo modo, sembra ben riuscito l’obiettivo degli sceneggiatori di creare una “storia prismatica”, in cui l’angolazione cambi in base al punto di vista dei personaggi. La sceneggiatrice Antonella W. Gaeta spiega l’intento, analizzando come – contrariamente alle aspettative – la serie non mostri lo stesso fatto dai quattro punti di vista differenti, ma semplicemente cambi prospettiva proseguendo la narrazione degli eventi:
“Confesso che la serie in principio era stata pensata anche come una specie di ‘Rashomon’, man mano ci accorgevamo che invece avevamo bisogno di far avanzare la storia: andavamo in profondità in ciascun protagonista e ogni personaggio ci portava nella sua essenza. Quello che abbiamo voluto raccontare è stato ciò che non si è visto, ma che ad Avetrana invece stava accadendo. Questa è stata la nostra più grande sfida: la torsione di episodio in episodio e al contempo l’avanzamento.”
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“Avetrana – Qui non è Hollywood” risulta un prodotto di forte impatto, non adatto ai deboli di cuore, anzi stomaco: non solo non ci risparmia le inquadrature sul cadavere della quindicenne, i gemiti durante il soffocamento come una voce fuoricampo, ma in generale fa vedere “tanto”. Anche quello che va oltre la banale curiosità.
I pensieri e le fantasie di Sarah e di Sabrina prendono letteralmente forma in scena, così come le loro paure e ossessioni. Protagonisti della miniserie diretta da Mezzapesa sono i pensieri non detti e i corpi così tanto visibili, quasi sbattuti in faccia allo spettatore.
È impressionante la somiglianza fisica e mimica rispetto ai personaggi originali. Anzi rispetto alle persone vere, divenute personaggi entrando nelle nostre case attraverso telegiornali e programmi tv per nell’estate 2010. Un grande merito va indiscutibilmente riconosciuto alla ricerca della costumista Sara Fanelli, che ci fa rendere conto di quanto la canotta azzurra di Sabrina, il cerchietto per capelli di Cosima e il cappellino di Michele, ma anche il rosso dei capelli di Concetta o lo stile del fratello Claudio siano ormai intrinseche all’immaginario collettivo degli italiani che non possono dimenticare questa vicenda.
Anche il trucco di Valentina Visintin merita un riconoscimento, soprattutto perché ad un primissimo impatto, a chi ha partecipato alla conferenza stampa, risulta quasi difficile identificare personaggi e membri del cast sul palco della Sala Sinopoli.
Un caso esemplare è quello di Vanessa Scalera, unica interprete ad essere entrata nel personaggio grazie ad un massiccio trucco e uso di protesi.
Vanessa Scalera (Cosima Misseri): Devo ringraziare Valentina Visintin che mi ha creata: ha creato quella maschera e quel corpo in cui mi sono inserita. Avere addosso quasi 20 chili non tuoi non è facile perché dentro c’è un corpo che urla, che un’altra età, un’altra fisicità. Io credo che Cosima sia un dado che ha da sempre avuto soltanto una faccia in luce. Io e Pippo (Mezzapesa, ndr) abbiamo tentato di illuminare gli altri lati che non ha mai mostrato, cercando di sprofondare in questa donna. L’approccio iniziale è stato proprio entrare in quel corpo e in quella faccia: io provengo da quei luoghi e quindi so benissimo come la vita di certe donne che hanno passato quasi tutti gli anni della loro esistenza in campagna ne cambi i corpi. Cosima in realtà non era una donna anziana, ma dimostrava più anni perché ha avuto una vita faticosa. Poi la lingua mi ha aiutata perché per la prima volta mi sono liberata e ho parlato nel mio dialetto.
Risulta difficile e impressionante identificare l’attrice che ha interpretato la cugina Sabrina nella diversissima Giulia Perulli (non solo per la sua chioma bionda), che ha invece scelto tutto un altro approccio rispetto alla collega. Racconta infatti:
Giulia Perulli (Sabrina Misseri): Io, invece, ho pensato che fosse necessaria e quasi inevitabile una trasformazione fisica per poter interpretare questo personaggio. Sono stata affiancata da una nutrizionista per aggiungere 22 chili al mio peso e poi ho tagliato e tinto i capelli. Ho fatto uso della documentazione video – tra l’altro si trova tantissimo materiale – per apprendere e percepire questi dettagli fisici del personaggio. L’emotività del personaggio è uscita fuori proprio dal convivere con questo corpo, che poi non ti appartiene ma non hai la possibilità di lasciarlo sul set. Sono andata a dormire e mi sono svegliata non vedendo più Giulia nello specchio per svariati mesi, quindi ho avuto modo di sedimentare un’emotività totalmente diversa.
Anche altri membri dell’eccellente cast hanno rivelato in che modo sono entrati in contatto con il proprio personaggio e lo hanno messo in scena.
Imma Villa (Concetta Serrano): Il mio è stato un ruolo difficile perché non c’è un capitolo dedicato a Concetta, ma è presente in ogni momento di questa storia. La sua presenza è forte, ma ho dovuto lavorare sulla sottrazione, facendo diventare vivo un personaggio che non si esprime con battute o con espressioni particolari. Ho dovuto lavorare sull’assenza per scarnificare e scavare nel dolore di questa donna.
Paolo De Vita (Michele Misseri): Leggendo la sceneggiatura, io ho desiderato veramente di diventare il corpo carnale del sogno del regista: tutti volevamo diventare quello che Pippo aveva sognato pensando di fare questa serie. Lo abbiamo fatto con responsabilità, rispetto, senso della tragedia. Abbiamo studiato seriamente il dialetto per essere ancora più onesti verso la tragedia di questa famiglia. Eravamo consapevoli di trattare un materiale umanamente doloroso, scottante e abbiamo aderito a questo progetto con un senso di amore, di sofferenza… che ci portiamo ancora addosso qualche volta.
Anna Ferzetti (la giornalista Daniela): Io rappresento la parte mediatica liberamente ispirata alle figure che c’erano all’epoca del giornalismo. Sarebbe stato difficile cercarne una in particolare perché erano veramente tantissime. Ho cercato di documentarmi, di capire anche il linguaggio del giornalista in quel momento, ma abbiamo deciso di far emergere il lato della giornalista arrivista, in quel momento ambiziosa, che non guarda in faccia nessuno per la notizia e, allo stesso tempo, la prima che incomincia a fare due passi indietro. È stato bello ritrovare il lato umano di questa donna che si ritrova in qualche modo anche coinvolta. Io sono un po’ l’occhio esterno, quello che eravamo tutti noi quasi 15 anni fa, con le varie domande che ci siamo fatti tutti in quel periodo e tutti ricordiamo.
A prescindere dal talento e minuzioso lavoro degli attori, del regista e di tutto il cast tecnico e dalla indiscutibile qualità del prodotto finale, risulta difficile prevedere la reazione del grande pubblico alla riproposizione così intima e esplicita di quello che è stato un vero e proprio trauma nazionale. Non ci resta che attendere il 25 ottobre per poter vedere la serie tutta d’un fiato sulla piattaforma Disney+.