L’amore ineluttabile di Gatsby: perché il capolavoro di Fitzgerald non passa mai di moda
Scritto nel 1925 da Francis Scott Fitzgerald, “Il Grande Gatsby” è considerato tra i capisaldi della letteratura statunitense di inizio Novecento. Nonostante sia passato quasi un secolo dalla sua pubblicazione, non smette di affascinare i lettori di tutte le età, sempre pronto a conquistarne di nuovi e a rafforzare i pareri positivi di chi lo abbia letto almeno una volta nel corso della propria vita. E’ un must, insomma, imprescindibile per chiunque sia amante della letteratura a stelle e strisce.
“Ricchissimo, potente, invidiato, Jay Gatsby è il re senza corona di West Egg. Nella sua villa sfarzosa lungo l’Hudson, a Long Island, è lo sfuggente anfitrione di una corte fastosa e stravagante, che nutre di lussuosi ricevimenti. Ma non è felice: dal mistero del suo passato emerge a tratti il ricordo di un grande amore giovanile. Gatsby insegue disperatamente il sogno di ritrovare Daisy, di far rivivere il legame con la donna che lo ha respinto, povero e senza prospettive, per sposare il rampollo di una delle più grandi famiglie americane. Dovrà mettere in gioco tutto il peso del suo fascino e del suo potere, ma servirà solo a dare vita a una dolce follia destinata a finire in tragedia”.
Sarà possibile, dunque, ripetere il passato? Ritrovare ciò che è stato perduto e pensare di viverlo nuovamente, come se non meglio di prima? Nel romanzo di Fitzgerald sono presenti temi complessi e delicati, come la mancanza di affetto, la solitudine, la convenienza. Ma anche il crollo del mito, dell’indifferenza e della incomunicabilità. Alle feste di Gatsby, sfarzose, entusiasmanti, dinamiche e tentatrici, tutti partecipano senza essere protagonisti, slegati dal contesto ricreativo e proiettati verso l’assolutezza del proprio ego, da esibire con ostentata vanagloria.
Il più solo tra i soli è proprio lui, Jay Gabtsy. Le feste che vanno in scena nella sua lussuosa villa altro non sono che una proiezione del proprio malessere e della propria inquietudine. Tutto è mal celato, perfetto archetipo di una platealità che nasconde tristezza e mancanza di affetti. E’ solo, triste, senza una persona al proprio fianco per cui valga la pena combattere. Addirittura, a quelle feste, lui neanche partecipa. Sono uno specchio per allodole, mirate ad attirare l’attenzione dell’amata Daisy.
Il prato verde smeraldo che dona alla villa quelle fattezze principesche è teatro di malinconia. Ogni sera Gatsby guarda dritto di fronte a sè, in lontananza, alla ricerca di quella piccola luce che si riflette sul pontile della casa di Daisy. Il simbolo della speranza, della luce che, seppur fioca, c’è. E’ viva, non è spenta, può ingrandirsi sempre di più fino a illuminare in tutta la sua magnificenza. La metafora è sublime, immediata, dolce. E’ esattamente così che va nella vita reale, fino a che la luce non si spegne e resta tale per un lasso di tempo sufficientemente convincente a farci capire che è finita davvero, noi siamo lì a ricercarla, a rimirarla, a tenare di alimentarne il bagliore.
“Sono molti anni che non ci vediamo”, afferma Daisy. “Saranno cinque anni a novembre“, risponde Jay. E’ innamorato, non smetterà mai di esserlo. Vuole abbracciare quella luce, stringerla, sentirsi riscaldato da essa. E’ coraggioso, Gatsby, che non ammaina mai bandiera bianca in tutti quegli anni, che crede nel sogno e che nel sogno si ritrova, senza mai cedere il passo allo sconforto, alla disperazione, alla commiserazione, pur vivendo un profondissimo stato di inquietudine. E’ uno stato d’animo complicato, quello con cui si trova a vivere. La luce, pure se fioca, è viva. In questo romanzo Francis Scott Fitzgerald descrive l’amore incondizionato. La luce può spegnersi, certamente, ma può anche tornare a brillare.