Lacrime e applausi per “C33 e vennero giorni migliori”: le storie dei martiri per la libertà
Avezzano (AQ) – Il Teatro dei Marsi ha raggiunto il sold out per “C33 e vennero giorni migliori“: un grande successo di pubblico, tra commozione e dura verità.
Lo spettacolo, diretto da Francesco Frezzini, è stato tratto dal libro “4 giugno 1944 – Le voci spezzate dei Martiri di Capistrello” di Alfio Di Battista, edito da Radici Edizioni. Si tratta del racconto dei tragici fatti accaduti precisamente ottanta anni fa nel paese marsicano di Capistrello: l’eccidio di trentatré civili innocenti, trucidati dalla furia omicida dei soldati tedeschi. Una delle feroci rappresaglie messe in atto dalle truppe naziste in ritirata dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943, che sancì la fine dell’alleanza tra l’Italia e la Germania.
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“C33 e vennero giorni migliori” mette in scena le storie delle vittime di quella strage, che attraverso la penna di Alfio Di Battista ritrovano la propria voce in un racconto in prima persona. Così i trentatré martiri tornano ad essere persone. contadini, allevatori, soldati e prigionieri fuggiti dal Campo di Concentramento di Avezzano, improvvisamente catturati tra i boschi del Monte Salviano, imprigionati in un deposito merci e brutalmente fucilati sul sacrario davanti la stazione ferroviaria di Capistrello.
Sul palco, attraverso Francesco Frezzini (anche regista), Flaviano Fiasca, Emma Francesconi, Emanuele Bracone, Walter Spera, Gaetano Paciotti, Mauro Ranalletta, Antonio Scatena, Raffaele Donatelli e ben 25 comparse, si alternano storie di vita alla grande Storia – quella con la S maiuscola.
Effettivamente il libro di Di Battista, che immagina e ricrea gli ultimi pensieri e le storie delle vittime, nasce con l’intento di farne una rappresentazione teatrale. Le pagine vengono impreziosite dalle suggestive musiche originali del M° Simone Sangiacomo.
Quando il sipario del Teatro dei Marsi si alza davanti ad oltre 700 spettatori, appare una scena minimalista: vecchie cornici rotte, tre sedute in legno bianco e – quasi sorprendentemente – il telo di un proiettore. Una luce bianca accecante si accende sul fondo, mentre il silenzio viene interrotto dall’annuncio dell’Armistizio via radio, che spiega al popolo italiano come i tedeschi non siano più da considerare alleati.
Così comincia la rappresentazione che ripercorre l’incubo di trentatré uomini, definiti “martiri della libertà“, ma che in primis sono padri, figli, fratelli, mariti. Entrando dalle quinte laterali o dalla platea, i protagonisti della tragica vicenda si alternano sul palco per raccontare la propria struggente versione, a tu per tu con il pubblico.
Primo fra tutti, il giovanissimo Giuseppe Forsinetti, ucciso a soli 13 anni, con rabbia e incomprensione per un destino atroce, inspiegabile soprattutto per chi è poco più che un bambino. La voce rotta del giovane e talentuoso Emanuele Bracone, attore della serie Netflix “Supersex” con Alessandro Borghi, permette al pubblico di sentire i primi brividi.
Ma è solo l’inizio: “C33 e vennero giorni migliori” mette a dura prova la sensibilità degli spettatori in sala: la rappresentazione all’interno di un teatro risveglia le coscienze dal torpore, dall’indifferenza e dal senso di irrealtà con cui quotidianamente assistiamo a stragi in tv, in diretta o sui social.
Un sopravvissuto, l’ultimo prigioniero ad essere ucciso, un uomo che si è imbattuto casualmente nella fossa comune. Uno per uno, i protagonisti prendono il controllo della scena e raccontano un altro punto di vista di quella folle giornata. E ogni volta le voci degli attori si rompono gradualmente e i loro corpi, pur restando fermi in un punto del palco, raccontano parallelamente la storia, rivivendo le sensazioni fisiche di quelle ore: si coprono, si piegano, tremano, si accartocciano e si accasciano. Esprimendo forza e fragilità, impeto e rassegnazione. Corpi non giovanissimi che rendono il racconto più che realistico: nelle loro mani e voci così vissute si percepisce ancor di più il senso della Storia.
Sul palco si alternano la sorpresa, l’innocenza, l’illusione di essere presto liberati in cambio del bestiame. E poi la rabbia, la colpa, la mattanza, l’orrore, la follia.
“Quanto vale il tempo che ti resta ancora per un ultimo respiro, prima della fine? Che sapore ha l’aria che ti attraversa i polmoni, prima che il tuo respiro si fermi per sempre? Quanto brucia il sangue nelle vene, prima che il tuo cuore esaurisca l’ultimo battito?”
Lo stomaco si contorce e il respiro resta sospeso a mezz’aria quando i trentatré uomini entrano dalla platea e passano lentamente in fila, con le mani in alto, in mezzo agli spettatori, mentre voci fuoricampo riportano gli ultimi pensieri delle vittime. La scena si dilata per diversi minuti, mentre in platea il sottofondo musicale si mescola al rumore di chi sommessamente tira su con il naso e chi spacchetta fazzoletti.
Gli attori di “C33 e vennero giorni migliori” riempiono la scena e arrivano dritto al cuore – e alla coscienza – del pubblico. Sullo sfondo invece vengono proiettate foto storiche che aiutano l’immaginazione ma a tratti rompono l’illusione, il realismo della rappresentazione. Ma l’effetto non dispiace, perché permette allo spettatore di riprendere fiato tra scene strazianti.
Come il racconto dettagliato dell’esecuzione, interrotto solo dalle urla fuoricampo del tredicenne Giuseppe, “troppo grande per non capire e troppo piccolo per morire“.
“Non ero ancora morto ma sentivo il freddo della fine e un’infinita stanchezza. Non avrei mai creduto ci sarebbe voluto così tanto per morire.”
Ad un certo punto, la situazione sul palco cambia, quando tornano sei personaggi già conosciuti: sono le anime delle vittime che si ritrovano intorno alla fossa comune – scavata da una bomba esplosa poco prima – e realizzano di essere morti. Esprimono sgomento, lucida rassegnazione e rabbia contro un Dio tanto invocato ma non presente in quel momento. Qualcuno dice che a far la guerra non è Dio ma gli uomini e le anime si ritrovano a ragionare sulle motivazioni di tutti i conflitti.
John, soldato neozelandese, spiega come in realtà siano tutti morti per caso, solo perché si trovavano nel posto e nel momento sbagliato. Così la riflessione si sposta sul sentimento del tempo. Ma la scena viene interrotta dalle strazianti urla fuoricampo delle mamme e mogli delle vittime.
Lo spettacolo vira verso il confronto post mortem tra la vittima Franco Gallese e “il boia di Capistrello“, il tenente tedesco Heinz Nebgen, che parla inizialmente in un modo quasi insopportabile, con cinismo e – sembrerebbe – una punta di ironia. Prova a dare motivazioni strategiche e politiche per cui semplici contadini abbiano dovuto soffrire le conseguenze di un armistizio, difende la propria natura di soldato trasformato in assassino per obbedire a ordini, accusa i partigiani di essere ugualmente violenti. Il contadino ribatte continuamente, illustrando l’assurda crudeltà di quella strage.
Il confronto sembra diventare una gara a chi abbia vissuto il peggiore inferno, finché il tenente si pente, ammettendo di essere stato un codardo per tutta la vita e di essere pronto a pagare in eterno per le sue azioni. In special modo per il brutale assassinio di Pietro Masci, diciassettenne ucciso qualche giorno prima con l’accusa di aver rubato un pacchetto di sigarette.
Arriva sulla scena una donna vestita in nero – unica donna della compagnia di “C33 e vennero giorni migliori” -, la madre di Piero. Toccante il modo in cui Emma Francesconi interpreti il suo personaggio con una voce calma e al contempo piena di rabbia, che sembra salire dallo stomaco. Racconta sentitamente, ma con rassegnazione, l’atroce tortura subita dal figlio diciassettenne per un così futile motivo. Racconta come suo figlio quel giorno indossasse un cappotto nuovo: lascia cadere a terra la propria giacca per raccoglierla e stringerla forte a sé il cappotto, come fosse ancora “pieno”. Nella tasca sente il panino preparato il giorno prima e, da buon cuore di mamma, si preoccupa che il figlio non abbia mangiato. La mamma di Piero diventa una Pietà e la sua voce si fa sempre più acuta, il suo pianto assordante, mentre grida:
“Non avere paura. Mamma sta qua. Sta qua vicino a te”
Il confronto tra le anime si conclude con il tenente che chiede perdono mentre le vittime raccontano di tornare nello stesso posto ad ogni anniversario perché la memoria resista, compiendo una sorta di rituale. Uno di loro domanda infatti: “E allora iniziamo?”
Tutti e trentatré gli uomini arrivano sul palco e si dispongono come cadaveri, occupando anche il proscenio, illuminati da una luce rossa. Si sentono i trentatré colpi di pistola mentre una voce fuoricampo li chiama per nome e, come durante l’appello, gli uomini si alzano uno la volta.
Ma se ci si concentra, si realizza che si tratta di trentatré voci diverse: sono le vittime che si annunciano, che si presentano al pubblico, guardandolo negli occhi. Uno sguardo difficile da sostenere, soprattutto quando gli ultimi uomini dicono davvero il proprio nome, non facendosi sostituire dalla voce fuoricampo. L’emozione raggiunge l’apice con il monologo finale del piccolo Giuseppe.
“C33 e vennero giorni migliori” si conclude con ben otto minuti di applausi: il pubblico applaude finché le mani non fanno male, almeno quanto duole lo stomaco e brillano gli occhi.
Applausi più che meritati per una storia che, con durezza e poesia, riporta alla luce una verità che troppo spesso si vuole dimenticare.