Lacci, l’educazione sentimentale e i giovani-vecchi
Non è che uno vuole sempre affondare il coltello nella piaga, rigirarlo e farsi una risatina malefica. Vai a vedere che alla fine ti danno del filo-americano, e quindi anche del qualunquista e del sognatore mai cresciuto, o ti senti dire che sei anti-europeo e quindi poco affidabile, per carità. Però ogni tanto occorre dire le cose quantomeno per come appaiono all’evidenza. E la mia è un’evidenza piccola così, ma nel mio angolino scrivo anche di questo.
Che succede? Succede che quasi tutti hanno un abbonamento Netflix, quasi tutti gli abbonati hanno visto l’ultimo di Kaufman, ‘Sto pensando di finirla qui’, e almeno una parte di quel pubblico estremamente vasto l’ha gradito. Perché è Kaufman, direte voi, e grazie tante. Ma Kaufman è un ebreo della periferia newyorkese, desterà immediatamente qualche antipatia in un paese come l’Italia con un proverbiale atteggiamento di scazzo verso gli ebraici e gli americani. Kaufman ha fatto un film semplice, alla base. La storia è: una giovane coppia in crisi. Era così anche il meraviglioso ‘Storia di un matrimonio’ – sempre Netflix, sempre americano – ed è anche la base di un altro film, questa volta italiano, diretto da Daniele Luchetti: ‘Lacci’, dall’omonimo romanzo di Domenico Starnone.
Ci sono Luigi Lo Cascio e Alba Rohrwacher, Laura Morante, Silvio Orlando, Giovanna Mezzogiorno e Adriano Giannini. E ti viene da dire: alla faccia! Un trucchetto vecchio come il mondo, la coralità. Se fossi un terribile sostenitore del cinema americano, potrei osservare meschinamente che questa è già una differenza bella e buona rispetto ai due film sopracitati, che avevano solo due attori di punta, e in un caso su due nemmeno così famosi.
Ci sono anche i bambini, in Lacci: anzi sono centrali, come in tutti i film italiani dell’ultimo periodo. Ci sono i bambini in Favolacce dei D’Innocenzo, in Padrenostro di Claudio Noce e quindi ci sono anche qui. Fanno quello che fanno tutti i bambini del nuovo cinema italiano: gli adulti, più maturi dei loro genitori. Non li vedi mai con un amico, non esiste che escano fuori a giocare a nascondino. Sono dei giovani-vecchi. Stanno in casa a rompere le palle, si siedono e parlano del divorzio dei genitori, perché Aldo (Lo Cascio) mette le corna alla moglie (Rohrwacher), con una bella ragazza incontrata negli studi Rai di Roma – mica pizza e fichi. E anche loro sono giovani-vecchi: Lo Cascio ha 52 anni, ma nel film fa un fresco trentenne.
Quindi: esci dal viaggio onirico di Kaufman, e poi ancora da quel quadretto dolce, divertente, mai melenso che è ‘Storia di un matrimonio’, e arrivi da Luchetti nella sua Napoli degli anni ’80. Qui è impossibile ridere, il film è di una serietà da oratorio. Si piange, ci si tira gli oggetti. Omaggi? Sì, anche: a Calvino, di cui si legge uno stralcio. Roba per professori del liceo classico – altro sempreverde italiano -, a cui il film si rivolge per tutta la sua durata: c’è un gioco di parole in latino, e la Rohrwacher, nel film, è una docente precaria. Nell’insieme è una tediosa reiterazione delle stesse sequenze: ti amo, ti odio, ti lascio, tanto poi torni, ma poi ti sbatto fuori di nuovo. Le donne buonissime in un mondo di uomini marci, le colpe dei padri e mai delle madri.
Non c’è sincerità nel film di Luchetti, e il risultato è una non-storia verbosa e drammatica fino all’esaurimento delle lacrime. Esci dalla sala e pensi a Kaufman e alla coppia Driver-Johansson. Cosa manca, a noi Italiani? L’educazione sentimentale, certamente. Ma siamo anche eredi di una cultura democratica diabetica, e di questo fardello che è la verbosissima lingua italiana a cui certi sceneggiatori non riescono a resistere, e vai di cine-teatro.