La tragedia mai dimenticata dello Space Shuttle Challenger
Lo Space Shuttle Challenger doveva essere un altro “grande passo per l’umanità” ma finì per essere una tragedia. Imprevedibile e, per questo, scioccante. Il 28 gennaio del 1986 gli Stati Uniti provarono a calare l’ultimo asso delle missioni spaziali, quello che avrebbe azzerato la concorrenza e portato il Paese sul tetto del mondo (e oltre) nel campo dell’innovazione aerospaziale. La corsa alla conquista dei confini extraterrestri era già partita da decenni ma la volontà di andare oltre era – ed è tutt’ora – inarrestabile.
Lo Space Shuttle Challenger era il fiore all’occhiello della flotta aerea made in U.S.A. Ma nessuno poteva sapere che dopo soli 73 secondi dal lancio della missione STS-51-L, questo sarebbe esploso durante la fase di decollo. L’ambizione e la lungimiranza non avevano fatto i conti con gli imprevisti e con quell’elemento, chiamato “fato”, che va curato, tutelato, arruffianato. Lo stuzzichi reagisce e non se non lo accudisci, non ti perdona. Così accadde.
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La tragedia, però, poteva essere evitata. Nei giorni precedenti al lancio le pessime condizioni meteorologiche avevano rallentato le operazioni, rimandato l’appuntamento tanto atteso e quindi creato le condizioni ideali per controllare e ricontrollare ogni singola vita del mezzo e ogni singolo aspetto delle comunicazioni video, radio e di qualsiasi dettaglio tecnico della missione. Quando si ha a che fare con strumenti del genere e con missioni di così grande ambizione, nulla può essere lasciato al caso e i controlli non sono mai eccessivi.
La decima missione dello Space Shuttle Challenger doveva essere un trionfo, ma il difetto di un O-Ring, uno dei propulsori a combustibile solido, provocò un incendio al serbatoio esterno che in poche frazioni di secondo causò l’esplosione del mezzo. Come accennato in precedenza, nei giorni precedenti al lancio le temperature erano particolarmente rigide e occorse più di una revisione per scongelare alcuni componenti esterni che si erano congelati. Fra questi vi era anche quel semplice anello di gomma sul lato destro. Si indurì, perse la flessibilità e l’impressionante sbalzo termico del momento lo fece spezzare.
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A bordo vi erano Michael John Smith, Dick Scobee e Ronald McNair, Ellison Onizuka, Gregory Jarvis, Judith Resnik e Christa McAuliffe, il primo civile mai andato in orbita.
L’incidente sospese il programma spaziale Shuttle per 32 mesi, mettendo a serio rischio la tenuta dello stesso per il futuro. Venne aperta un’inchiesta, condotta dalla Commissione Rogers, nominata direttamente dal presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan. Occorreva immediatamente fare luce sull’accaduto, accertare cosa non avesse funzionato, restituire giustizia ai famigliari delle vittime e ridare credibilità al progetto spaziale su cui il Paese aveva pesantemente investito.
Come riportato dalla stampa di allora, “gli amministratori della NASA sapevano che la compagnia di motori a stato solido, la Morton Thiokol, aveva dei relatori interni in cui si ipotizzava un possibile fallimento produttivo negli O-ring fin dal 1977, ma che non erano mai stati capaci (o interessati?) a risolvere correttamente il problema. I responsabili ignorano gli avvertimenti degli ingegneri sui pericoli del lancio dovuti alle basse temperature di quella mattina, non riuscendo a segnalare questi rischi e preoccupazioni tecniche ai loro superiori”.
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Se è stato fatto luce sul motivo dell’esplosione, altrettanto non è stato fatto circa il momento della morte dell’equipaggio. Una delle ipotesi discusse dalla Commissione è che il personale a bordo non sarebbe deceduto parallelamente all’esplosione del mezzo, ma in un secondo momento, probabilmente nell’impatto della navetta-cabina con l’Oceano. Dall’esplosione allo schianto con l’acqua passarono circa due minuti. Le investigazioni successive effettivamente confermarono che almeno parte dell’equipaggio era vivo al momento dell’impatto.
Alcune procedure di emergenza, infatti, comprovarono che l’ossigeno supplementare era stato attivato dopo l’esplosione, funzione possibile solo manualmente, quindi con la consapevolezza d’intervento degli astronauti. Ma la verità è che, se i controlli fossero stati rigidi come avrebbero dovuto, a quest’ora staremmo parlando di tutt’altro.