“La prospettiva rovesciata” di Pavel Florenskij: recensione
Articolo a cura di Nicola F. Pomponio
Con questo testo la casa editrice Adelphi continua la meritoria opera di pubblicazione degli scritti di Pavel Alexandrovic Florenskij, il grande mistico, teologo, sacerdote ortodosso russo, ma anche matematico, filosofo e profondo conoscitore della scienza moderna, fatto fucilare da Stalin, dopo anni di detenzione nei gulag, nel 1937.
“La prospettiva rovesciata” va infatti letta tenendo presente sia “Le porte regali. Saggio sull’icona” (Adelphi, 1977), essendone una sorta di completamento da un punto di vista di storia dell’arte, sia “Lo spazio e il tempo nell’arte” (Adelphi, 1995). Mentre nel testo sull’icona Florenskij ne indaga i fondamenti teologici e mistici elaborando una teologia della luce senza però approfondire la questione della prospettiva così come si è sviluppata nell’arte occidentale, ne “La prospettiva rovesciata” l’indagine storica e filosofica di questa tecnica pittorica diventa il punto di partenza per una riflessione che marca la differenza tra Oriente e Occidente cristiano.
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Per l’autore la prospettiva con un unico punto di fuga intorno al quale si organizza tutta la composizione del quadro è una creazione moderna che data dal Rinascimento in avanti; sconosciuta quindi, non per ignoranza ma per scelta deliberata, all’arte precedente essa necessita di un approfondimento che ne mostri non solo l’artificiosità ma anche e soprattutto i presupposti filosofici.
Artificiosità perché nella sua pretesa di oggettività, questo tipo di prospettiva semplifica la percezione umana presupponendo un solo occhio, non due, che guarda immobile nello spazio a prescindere da qualsiasi altra caratteristica sensoriale che non sia il vedere; artificiosità perché prima assume lo spazio nella sua definizione euclidea, ovvero tridimensionale e, soprattutto, omogeneo poi lo nega scegliendo uno e un solo punto privilegiato rispetto a tutti gli infiniti altri in base al quale articolare la visione.
Artificiosità, infine, perché pretende di far corrispondere “in toto”, cosa materialmente impossibile, visione prospettica dipinta e realtà. Non a caso alcune delle grandi opere rinascimentali italiane sono grandi proprio perché non seguono questi principii risultando così di notevole interesse le pagine dedicate a Raffaello (la Scuola di Atene) e Michelangelo (il Giudizio Universale).
Ma, al di là di questa critica immanente che trova una conferma talvolta quasi letterale nell’opera di Panofsky su “La prospettiva come <forma simbolica>”, esiste per Florenskij un aspetto ben più interessante, ovvero rispondere alla domanda sul perché a un certo punto nella storia dell’umanità si è imposto, la prospettiva non è naturale ma va appresa e insegnata, questo modo di rappresentazione.
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Convergono qui due momenti; da un lato la reinterpretazione rinascimentale, con la rivalutazione dell’idea di infinito, della geometria euclidea a cui si è fatto rapidamente cenno, si noti che l’autore conosceva molto bene gli sviluppi della ricerca ottocentesca sia sulle geometrie non-euclidee sia sul concetto d’infinito nella matematica e l’idea di transfinito di Cantor, dall’altro il sorgere di una concezione del soggetto che è un “novum” nella riflessione filosofica. E’ questo un punto importante e delicato. Se nel Rinascimento si vìola il principio euclideo dell’omogeneità spaziale scegliendo un punto su cui far convergere il dipinto, ciò è possibile perché si affaccia una visione soggettivista dell’uomo (l’umanismo) che si dispiegherà fino in fondo nei secoli successivi.
Florenskij individua il Rinascimento non tanto come “rinascita dell’antichità” quanto come uno snodo fondamentale che conclude, esteticamente, ciò che si annuncia in Giotto e al contempo proietta nel futuro una rappresentazione dell’individuo che troverà compimento nella modernità. L’uomo ridotto a soggetto, slegato da rapporti comunitari, ma assunto sempre e solo nella sua singolarità immutabile è quanto si nasconde, filosoficamente, nel punto di fuga unificatore dei quadri. In tal senso la pittura annuncia una nuova antropologia che non avrà più alcun rapporto con una visione religiosa dell’esistente.
Ora è il soggetto, l’Io kantiano che viene a porsi come principio unificatore e donatore di senso alla realtà e ciò implica che al suo punto di vista sia tutto sottomesso. Non si può quindi che prendere congedo da una pittura in cui “le forme devono essere concepite in base alla loro vita e devono essere raffigurate in sé e per sé” (pag. 41) senza essere subordinate ad un unico punto di fuga ma possedendone ognuna una propria, indipendente dalle altre, come nelle icone o nell’arte antica e medievale: questa è la “prospettiva rovesciata”.
Quest’arte che volutamente disdegna la prospettiva con un solo punto di fuga pur conoscendola da secoli, per Florenskij e Panofski la data di nascita è il 470 a.C. ad Atene, riconosce valore e realtà ad ogni singolo elemento rappresentato rifiutandosi di sottometterlo ad un astratto principio unificatore; questo è quanto il sacerdote russo intende per realismo ovvero la capacità di assumere e rappresentare ogni elemento nel suo proprio valore e ricchezza senza sacrificarlo a un principio superiore sia esso individualista (kantiano) o generale (la terribile derisione hegeliana per il fiorellino stritolato dallo spirito del tempo) col suo compimento collettivista (bolscevismo come “villanocrazia”).
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In fin dei conti tutto l’affaccendarsi intorno a un unico punto di fuga non fa che dare l’illusione di una conoscenza; è puro illusionismo che nasce al di fuori dell’arte, è pensato per decorare i fondali delle tragedie greche, ma che, coniugato al moderno antropocentrismo si converte in un sapere apparente e arrogante che, non riconoscendo più alcuna dignità al particolare giunge, come nell’arte applicata della skenographia, ad avere “come obiettivo non la verità dell’essere, ma la verosimiglianza dell’apparenza” (pag. 24); in questo giudizio riecheggiano temi plotiniani ma, soprattutto, si evidenzia la frantumazione nella modernità dell’unità della triade platonica, mantenutasi intatta per secoli nell’icona, di Vero, Bello e Bene.
La lettura di questo breve, ma densissimo libretto è quindi di grande interesse; al di là della correttezza filologica nell’analisi delle fonti, il già citato Panofsky al riguardo è molto più prudente, al di là di una vis polemica talvolta a stento trattenuta e non sempre foriera di prese di posizione accurate, al di là del giudizio fondamentalmente negativo, ancorché estremamente attento alle più sottili sfumature, sull’arte del Rinascimento e della modernità, “La prospettiva rovesciata” si segnala per l’acutezza analitica, la profondità teoretica e la grande, bruciante passione interpretativa. E’ un’opera la cui lettura arricchisce profondamente il lettore.