La grazia di Lucio Battisti
C’è un duetto che non smette mai di affascinarmi, e che riguardo sempre con una certa commozione. È quello di Lucio Battisti – era appena uscito “Umanamente uomo” – con Mina, negli studi Rai del 1972.
All’epoca Battisti aveva 29 anni, ma aveva già pubblicato “Emozioni”, lasciando un primo segno indelebile nella sua discografia. Mina era maestosa come sempre. Quando iniziano a cantare, c’è la commozione di Battisti e l’entrata fulminante di Mina sulle note de “Il tempo di morire”, e vanno avanti: “Mi ritorni in mente” ed “Emozioni”, il teatro è tutto loro.
Qualche ora prima le prove erano andate male, per non dire che non c’erano state: Battisti era arrivato con la band a Milano in tarda serata, non avevano chiuso occhio e al Teatro 10 attaccarono a suonare con poca disinvoltura e tante ore di sonno arretrato.
Quello che poteva essere il live più disastroso di Battisti è diventato, un po’ per un innaturale talento, un po’ per l’epifania di grazia che era – ed è – la voce di Mina, una pagina senza tempo della televisione italiana, particolarmente importante, oggi, perché fu tre le ultime esibizioni televisive di Battisti. Nel 1979 annunciò che avrebbe rifiutato ogni intervista e apparizione televisiva:
“Non parlerò più, perché l’artista deve parlare attraverso il suo lavoro”
Non parlò più, lo fece davvero. Vent’anni dopo morì, nella discreta Milano dove trascorse quella vacanza dalle scene, in una villetta a tre piani disordinata e silenziosa. Quando leggo di quel quadretto modesto, un cucinotto sporco, in subbuglio, la tv accesa nel salotto e Battisti che ospita, controvoglia, qualche fotografo in casa pregando di non entrare in camera da letto o nei ripostigli, per il disordine, penso che, pur non essendoci mai entrato, quella villetta senza ornamenti sia il tipo di mitezza che Battisti amava cantare nelle sue canzoni: dallo spioncino di una porta, i suoi dischi ci mostrano frammenti di vite, momenti passeggeri, storie d’amore mai finite, inni di libertà, tradimenti, fughe, la voglia dell’avventura.
Sono storie semplici quelle che ci racconta Battisti, non c’è concettualismo ma una grande modernità musicale unita alla semplicità delle parole, alla genuinità degli argomenti. È la chiave che permette al meno italiano degli Italiani, che non votava, non seguiva il calcio e rifiutava i riflettori, di accedere a una dimensione internazionale e atemporale, che parla in tutto il mondo, a tutti le generazioni.
Non è un caso che ancora oggi si cantino le sue canzoni, e che i giovani si siano adoperati perché la sua discografia arrivasse in streaming, dopo anni di assenza: nei tempi bui che il mondo vive, Battisti ci insegna a non piangerci addosso, a rincorrere l’avventura, l’amore semplice, a non perderci nel bagno di lacrime che questo paese ama, fin troppo.
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“Prendila così, non possiamo farne un dramma“, per dirla con parole sue.
E poi ancora la dissolvenza, quell’uscita dai riflettori senza fronzoli, senza isterie. Se n’è andato e, come abbiamo ricordato, conta la musica e non il personaggio, non l’autore che c’è dietro. Battisti lavorava la musica, si può dire, come Bava lavorava i suoi film, “come si fanno le seggiole”.
I suoi testi ci mostrano una vita che non voleva farsi compatire, la luce bianca e l’identità più minerale dell’esistenza quotidiana. Vivere appartati, raccontare con sincerità: “Non farsi vivo e non telefonare, parlar di tutto per non parlar d’amore, cercar di farsi un po’ desiderare è proprio un vero dolore”.
L’ultima apparizione di Lucio Battisti risale alla partecipazione nel 1980 alla trasmissione Musik & Gäste (musica e ospiti) della SRF, emittente svizzera di lingua tedesca, eseguendo in playback la canzone Amore mio di provincia dal suo ultimo disco con Mogol Una giornata uggiosa del 1980.