La commovente supercazzola di Elio Germano
Che per molti il medioevo sia ancora quell’amalgama di luoghi comuni sullo ius primae noctis e la tomistica è un dato di fatto. Non studiamo il medioevo a sufficienza per conoscere la fioritura culturale di quell’epoca e mai sono bastati gli interventi decennali di Eco per educarci a ridere di gusto contro le generalizzazioni e gli intellettualismi da sciarpetta.
C’è però questa squisita tendenza italiana del far sbucare dalle fosse vecchie scope senz’arte né parte, altrove inapprezzabili per ragioni meramente meritocratiche, e convertirle come violette di marzo allo spirito bonario degli artisti arrabbiati contro le industrie per cui lavorano, per il bene dell’Arte. Arriviamo dunque al centro della questione: gira da qualche settimana il video di un giovanissimo Elio Germano, spaparanzato su una poltroncina mentre si lagna dell’industria culturale italiana, che nel filtro in bianco e nero trova il picco di tristezza tipico dell’intellighenzia italiana.
Fondamentalmente ci si lagna che l’avidità di denaro dei terribili produttori italiani impedisca una crescita culturale nel nostro Paese. Citavo il medioevo perché in questo curioso video a favore della vera conoscenza la situazione italiana attuale veniva paragonata alla cultura medievale atrofizzata. Un paradosso su cui ridere, se volete. A rifletterci però questo video pone una domanda sopra le altre: quale direzione può prendere un discorso mosso da necessità divulgative se tutto ciò che contiene è una serie ininterrotta di luoghi comuni?
Basterebbe chiarire a Germano uno dei punti catartici del suo monologo drammatico: il cinema come arte. Abbiamo già riso abbastanza su questa definizione, in passato. Una passeggiata in un’Accademia del cinema di Roma basterebbe a mostrare la situazione corrente dei giovani del nostro paese quando provano ad approcciarsi al cinema come alla carcassa di un animale defunto: lo si guarda con rammarico e ci si prende sempre questa pena di volerlo ravvivare con la propria ipersensibilità.
Cortometraggi da vecchia nouvelle vouge ne abbiamo da riempirci tutti i festival nati nell’ultimo quarto di secolo – nati appositamente per premiare queste ciofeche – e le sovvenzioni statali di cui Germano prega la comparsa esistono già, anche e soprattutto per progetti così timidi e affazzonati. Quanto alla rimpianta età dell’oro, quegli anni ’70 in cui – ci dice Germano – il cinema era fatto con amore, senza pensare ai soldi, e il pubblico aveva consapevolezza dei propri grandi artisti, va fatta chiarezza: ricordiamo tutti benissimo le polemiche nate contro Rovazzi quando si azzardò a duettare con Morandi. Noi oggi ricordiamo Morandi come un gigante dell’autorialità sensibile e dimentichiamo quanto sia stato, per la generazione passata, il Rovazzi della propria epoca.
Ricordiamo Gaber per “libertà è partecipazione” e non per “Non arrossire”, Fellini per le analisi di cuore di ogni singolo frame de “La Dolce Vita” e non per la cazzoneria del Fellini uomo dietro al regista. Questo meccanismo che ha portato una generazione ormai anziana a rendere gli anni di piombo un’epoca ideale e il cinema e la musica leggera un manifesto politico e sociale è la stessa che porta Germano, un vecchio, a parlarci del passato come dell’epoca degli artisti molto buoni, quelli che non badavano allo sporco danaro. La verità è che il cinema è un’industria, sempre lo è stata e sempre lo sarà. Ha bisogno di soldi per andare avanti, scommette su prodotti che, vendendo, permettono di finanziare altri prodotti ipoteticamente artistici.
Quanto a quest’ultimo concetto, atteniamoci alla regola – lo consiglio per gli amici delle Accademie e per i frequentanti assidui dei cineforum per riflettere – che la definizione dell’arte la possiede solo l’artista. Arte è consapevolezza del proprio creato e conoscenza del linguaggio che si sta usando. Quanto alla consapevolezza di Germano, abbia almeno quella degli argomenti di cui vorrebbe parlare. Altrimenti taccia.