Juliana Crain, cioè la protagonista che protagonista non è
Si è da poco conclusa la quarta stagione di “The Man in The High Castle” e, come era facile prevedere, è subito diventata culto tra gli amanti delle serie tv
C’è qualcosa, però, che ha lasciato il segno più della trama, del finale e dell’hype generatosi attorno al prodotto targato Amazon Studios: una protagonista che protagonista non è. O, per essere più precisi, una protagonista spogliata del suo ruolo per essere relegata in secondo piano rispetto all’originale storyline.
L’evoluzione di Juliana Crain è, in realtà, una vera e propria involuzione. Nel corso delle quattro stagioni, infatti, la sobillatrice rivoluzionaria prende, sì, maggiore consapevolezza della propria forza d’animo, della propria temerarietà e del proprio carisma ma, al tempo stesso, non riesce a imporsi o, come si diceva una volta, a bucare lo schermo.
Il contrasto tra il personaggio e l’interpretazione dello stesso da parte dell’attrice (Alexandra Davalos) è, a lunghi tratti, rivedibile. Non c’è credibilità nella Crain, né tanto meno quella leadership a lungo rincorsa e sbandierata. Non è una leader silenziosa, come una chiave di lettura potrebbe suggerire, ma semplicemente una protagonista incapace di elevarsi sul resto del cast. E’ debole, soprattutto a causa della staticità espressiva ed emotiva della Davalos.
Il succedersi degli episodi non fa altro che ribadire un concetto di per se evidente, e cioè che la Julian Crain che puntava a imporsi nelle prime puntate, semplicemente non mantiene le attese. Non regge lo spessore dei co-protagonisti e, peggio ancora, viene lentamente spogliata della sua forza empatica e della sua sensibilità (cioè quegli aspetti che potevano fare la differenza nel suo carattere) per diventare una “donna in missione” dai ragionamenti meccanici. Insomma, si sgonfia come un palloncino fino a risultare svuotata e straordinariamente incapace di ritagliarsi uno spazio degno di questo nome.
Puntata dopo puntata la figura della Crain cede il posto al monumentale John Smith (Rufus Sewell), a Takeshi Kido (Joel De La Fuente) e Helen Smith (Chelah Horsdal). Sono loro i veri artefici del successo della serie.
Sewell su tutti, poi, brilla di luce propria. Il suo lavoro è talmente minuzioso da risultare maniacale, sia con riguardo all’approfondimento personale del suo Obergruppenführer, divenuto prima Reich Marshall e, poi, addirittura diretto a scalzare (con successo) il Führer Himmler, che con riguardo al mondo che è chiamato a dominare. Conflitti interni, dubbi, incertezze, paure. Vediamo uno Smith sempre più combattuto tra la sua intimità e il suo senso del dovere. Incapace di distinguere la realtà dai paradossi temporali e sempre più dissociato dalla moglie Helen, unica sua ancora di salvezza.
Un’interpretazione magistrale, come sottolineato all’unanimità da chiunque abbia visto “The Man in The High Castle”. Una performance visiva sugli scudi, impreziosita da un lavoro di sguardi calamitico. Quando Sewell guarda lo schermo, quegli occhi penetrano dentro chi è dietro di esso. La serie gli appartiene, è sua, è lui il vero protagonista di questo gioiellino Amazon. Smith scalza la Crain a ogni inquadratura, a ogni scena, a ogni vicenda che li vede coinvolti. E lo fa fin dalle primissime puntate, quando i ruoli sembrano invertiti, con la Davalos in fuga e Sewell a inseguire.
Si ribalta il copione e a noi va bene così, ma resta il dubbio che ciò sia avvenuto in corso d’opera, quasi per rispondere alla necessità di avere un protagonista con le spalle larghe, vitale per reggere la storyline e tenere alta l’attenzione attorno al prodotto. Il sospetto che gli stessi sceneggiatori possano essersene accorti e, per questo, aver rimediato in itinere, c’è. Ma, come direbbe qualcuno: “date un Oscar a quest’uomo“. Forse è un’affermazione esagerata, avventata, ne siamo consapevoli ma vogliamo ugualmente lanciare la provocazione. Forse ciò non avverrà mai, ma ci chiediamo come un attore di questo calibro non abbia mai realmente sfondato.