Joan Mirò, “tesoro di giorno, mostro di notte”: il documentario sul sovversivo artista spagnolo
“Un tesoro di giorno, un mostro di notte“. Joan Punyet Miró descrive così il nonno. È lui l’unico erede e amministratore dell’immensa opera di Joan Mirò, artista dai mille volti, alcuni luminosi e altri – meno noti – sovversivi e iconoclasti, esplorati grazie al racconto del nipote e a materiale d’archivio nel documentario “Joan Miró, il fuoco interiore”.
“Prima di nascere era già un ribelle: sua madre credeva di aspettare una femmina”, racconta LLuis Permanyer, giornalista e amico dell’artista. Miró non può fare a meno di dipingere, nonostante la contrarietà dei genitori: “Quando non dipingo mi vengono idee nere e non so che fare”. Il suo lavoro comincia a Montrouge, nella casa di famiglia. Qui, dice, “i miei piedi si sono ancorati alla terra”. La sua “Masia”, la fattoria, chiude il suo periodo realista e introduce elementi che torneranno come le scale e gli uccelli.
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Il legame con la terra natia non impedisce all’artista catalano di ampliare il proprio orizzonte culturale. A Parigi scopre il surrealismo e diventa amico dei poeti. Tende sempre al radicalismo. Vuole assassinare la pittura e creare l’anti pittura: “I dogmi mi hanno sempre dato fastidio. Volevo avere una libertà totale e assoluta e che nessuno mi imponesse una linea da seguire”, così si allontana anche dai surrealisti e continua la sua evoluzione.
All’Expo del 1937 di Parigi presenta “El Segador”, un contadino catalano in protesta, mentre il suo amico e collega Picasso porta “Guernica”. L’opera di Miro scomparirà e non verrà mai più ritrovata. Pur essendo antifranchista, torna in Spagna con moglie e figlia. Si ritira nel lavoro e dalle “Costellazioni” colorate del 1939 – dipinte in Normandia ispirato dalla musica, dalle stelle e dalla notte – passa a disegnare mostri in bianco e nero. Una denuncia gli orrori vissuti dal popolo spagnolo.
“Io non sogno, dormo come un ghiro, ma da sveglio sogno sempre”. È un grande lavoratore fino alla fine. Si sveglia alle 6 e lavora fino alle 20. La sua opera è in costante evoluzione. “Spero che continui a esserlo fino al giorno in cui farò quack”, dice a una giornalista. Dopo 50 anni di pittura, si avvicina alla terra, alla ceramica. Joan Gardy Artigas, ceramista che era un ragazzo quando Miró lavora con lui e con suo padre racconta: “Preparava un disegno e poi faceva una cosa totalmente diversa. Non obbediva nemmeno a sé stesso”.
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Va in Giappone dove “reimpara a usare il pennello” e sviluppa il suo fascino per la filosofia zen. Nella sua casa a Palma di Maiorca si dedicata alla meditazione, nella “stanza degli assenti”. E poi scopre la scultura, segnata dalla sua “visione magica e primitiva del sesso”, come la descrive Permanyer.
Mirò è così anticonformista che alla prima retrospettiva nel suo Paese, nel 1974, non si presenta perché c’è anche un ministro del governo franchista. Invece, si mette a dipingere con gli artisti di strada e tre giorni dopo distrugge il proprio lavoro. “L’arte può morire, ma quello che conta sono i semi che diffonde sulla terra”. Lo farà bruciando le tele, più avanti. E poi anche gli arazzi. Ormai ottantenne si avvicina al teatro. Il regista teatrale Joan Baixas racconta: “Adorava stare con i giovani radicali che facevano cose politicamente scorrette. Non ascoltava nemmeno l’amata Pilar e saltava la siesta”. Muore a 90 anni, dopo essere approdato al disegno di una linea semplice su immense tele vuote: “Finalmente ho trovato la libertà”.
Il documentario va in onda stasera, venerdì 10 maggio, alle 19.25 su Rai 5.