Isolamento, oppressione e claustrofobia: Shining è più attuale che mai
“Un brano intitolato “Il sogno di Jakob” venne usato nella scena in cui Jack si sveglia dal suo incubo, una strana coincidenza. Ci furono in realtà alcune altre coincidenze, in particolare con i nomi. Il personaggio interpretato da Jack Nicholson si chiama Jack nel romanzo. Suo figlio si chiama Danny nel romanzo ed è interpretato da Danny Lloyd. Il barman fantasma nel romanzo si chiama Lloyd” – Stanley Kubrick.
Diciamoci la verità, “Shining“, l’omonimo libro di Stephen King portato sul grande schermo da Stanley Kubrick (e scritto assieme a Diane Johnson) nel 1980, è quanto mai attuale. Niente a che vedere con hotel isolati dalla civiltà o nevicate impetuose, anzi, ma lo scenario d’isolamento che caratterizza il film e corrode l’anima e la mente del suo protagonista invece si, è qualcosa di realmente quotidiano. Il lockdown scattato a seguito dell’emergenza Coronavirus ci ha costretti a rimanere chiusi in casa e chi non ha avuto la fortuna di avere a disposizione i migliori mezzi per affrontarlo ha passato momenti davvero complessi.
La sensazione di vuoto, di claustrofobia, di smarrimento, d’isolamento, appunto, derivante dalla quarantena è stato per molti destabilizzante e non è un caso che le varie amministrazioni pubbliche abbiano predisposto sportelli di sostegno psicologico per chi ha manifestato sintomi come ansia, angoscia, spaesamento, mancanza di affetto, irrequietezza, insonnia et similia. Isolamento e quarantena sono elementi caratterizzanti il capolavoro di Stanley Kubrick. Il primo ne rappresenta la base di partenza dal quale e sul quale il film si eleva, il secondo la sfumatura, il detto tra le righe da applicare per analogia ai giorni nostri.
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La tecnica registica di Kubrick ha trovato nei 120 minuti della pellicola una tra le sue massime espressioni. Vengono messe in luce o riproposte in chiave moderna (per i tempi, ovviamente, e con riguardo ai lavori precedenti) alcune tecniche che ne segneranno il percorso artistico come “l’occhio meccanico” in cui la soggettività è data direttamente dal regista e non dai personaggi. Oppure come i tempi d’azione in cui le inquadrature, specialmente sui personaggi, sono più prolungate del previsto, marcando e accentuando gli sguardi e le espressioni degli attori. E poi c’è la circolarità delle scene che spesso prevedono un finale che si ricollega all’incipit del film.
Stephen King però non hai mai apprezzato la trasposizione cinematografica di Shining. “Kubrick ha voluto fare un film che fa male alle persone “, ha più volte dichiarato lo scrittore del Maine. Eppure il film ha ottenuto un successo straordinario, tanto di pubblico quanto di critica. La rivista inglese Time Out lo ha selezionato come il secondo miglior film horror in assoluto della storia del cinema, dietro solo a “L’esorcisista” e l’influenza che dal giorno della sua uscita in avanti ha avuto è stata – ed è – sconfinata.
E dire che lo stesso King contribuì nella scelta dell’attore preferendo Jack Nicholson ad altri. Furono provati anche Robin Williams, Harrison Ford e Robert De Niro. Quest’ultimo scartò la parte perché svelò che la sceneggiatura e la trama “non facilitavano il sonno“. Ci vollero sei mesi e circa 5000 ragazzini intervistati per tracciare il profilo di colui che interpretò il piccolo Danny Torrance, cioè Danny Llyoid. Diverse malelingue hanno sempre dichiarato che il giudizio negativo dello scrittore sul film è da attribuirsi alla mancata volontà, da parte di Kubrick, di dare maggiore spazio nella sceneggiature a King. Da lì, i dissapori – mai confermati – tra i due.
Altro elemento caratterizzante è la musica. Inquietante, tesa, disturbata, ansiogena, quasi a voler veicolare lo stato d’animo dello spettatore verso quel senso di oppressione, malessere e isolamento che Jack Torrence vive. Come a voler tenere costantemente sulle spine chi si trova di fronte allo schermo, la colonna sonora di Shining gioca con le ombre delle emozioni, impercettibili e a volte disturbate da ciò che poi non accade. E’ un gioco al gatto e al topo, quello di far vivere allo spettatore suggestioni contrastanti, altalenanti e contraddittorie nel giro di pochi fotogrammi.
L’Overlook Hotel è un luogo gigante, affascinante, geometricamente parlando perfetto. E’ luminoso, ampio, ospitale. Ma nasconde le tenebre che si riverberano sui protagonisti del romanzo e quindi del film. La prestazione degli attori è strepitosa, con Jack Nicholson ai massimi storici in termini d’ispirazione e Shelley Duvall talmente calata nella parte – e si, anche vessata durante le riprese – che per il resto della sua vita porterà con sé i segni orrorifici di un film entrato di diritto nell’immaginario collettivo.