“Io non ho paura”: 21 anni fa il Meridione nelle parole di Niccolò Ammaniti
“Piantala con questi mostri, Michele. I mostri non esistono. […] Devi avere paura degli uomini, non dei mostri”
A vent’anni dalla sua pubblicazione, il romanzo di Niccolò Ammaniti è ormai riconosciuto come un classico della letteratura italiana. Pubblicato nel 2001, anno in cui si aggiudicò anche il Premio Viareggio in ambito narrativa, è un romanzo che parla di amicizia, di solidarietà e della forza di essere bambini; da questo libro è stato anche tratto l’omonimo film dal regista Gabriele Salvatores nel 2003.
Lo stile di Ammaniti è un genere post-moderno caratterizzato da una narrazione molto cruda, nota come la narrativa dei cannibali. Per questo motivo, malgrado il titolo, “Io non ho paura” è un romanzo spaventoso sulla perdita dell’innocenza, capace di mantenere il lettore con il fiato sospeso fino all’ultima pagina.
“Io non ho paura” racconta le vicende di una torrida estate del 1978. In una frazione di campagna del Meridione, Michele viene sfidato dai suoi amici a entrare in una casa abbandonata in cui trova un bambino di nove anni, Filippo, nascosto in un buco nel terreno in condizione pietose. – Io non ho paura di niente – dice il protagonista nel momento centrale del romanzo. In quel momento supera le sue paure, si fa forza per raggiungere il bambino nella fossa e tra di loro nasce un’inaspettata amicizia.
In seguito, Michele scopre che nel rapimento di Filippo sono coinvolti i suoi genitori. Dopo esserci fidato dell’amico sbagliato, scopre che Felice, il rapitore e vero antagonista della storia, vuole uccidere il bambino rapito. Il protagonista allora inizia la folle ricerca del suo amico. Quando finalmente riesce a trovarlo, Filippo è stremato, ma Michele riesce comunque a metterlo in salvo. A questo punto, però, viene ferito da un colpo di fucile sparato proprio da suo padre, il quale passerà gli attimi successivi con il figlio tra le braccia piangendo e chiedendo aiuto.
“Una cosa travolgente. Rossa. Una diga che si è rotta. Niente può arginare una diga che si è rotta.” Con questa scena, Ammaniti conclude il suo romanzo.
L’autore sceglie un bambino di nove anni, Michele Amitrano, come narratore interno ed eroe delle vicende che ruotano intorno ad un rapimento. L’unico punto di vista che il lettore ha a disposizione è quello del protagonista, che è sempre ben chiaro perché è un bambino coraggioso con una forte morale. Michele è l’eroe della solidarietà. Gli altri personaggi del romanzo invece, come i suoi genitori, hanno una morale compromessa: nonostante sia coinvolta nel rapimento del bambino, la madre è di per sé una brava persona, che si mostra fin da subito turbata dalla questione del rapimento. Il padre invece è descritto come un genitore austero e anaffettivo, che aspetta la fine del romanzo per mostrare al lettore il suo lato amorevole e il suo pentimento.
Il linguaggio del romanzo è molto semplice: è il linguaggio dei bambini, che si può notare dall’utilizzo voluto dell’indicativo al posto del congiuntivo. La narrazione è speciale e molto particolare, perché Ammaniti riesce a divulgare una storia dal forte contenuto emotivo raccontandola con la semplicità di un ragazzino, catturando i pensieri di un bambino che si ritrova ad affrontare una situazione che, ironicamente, farebbe paura ad un adulto.
Einaudi parla di questo classico proclamandolo un “romanzo della scoperta di sé attraverso un rischio estremo, e la necessità di affrontarlo […] un addio all’età dei giochi e dello stupore, all’energia magica che ci fa lottare contro i mostri.”
Sono ormai passati vent’anni e, grazie a Niccolò, Michele, Filippo, Maria e tutti gli altri personaggi di questa storia, continuiamo a non avere paura.
di Daniele Atza