Intervista. Swanz The Lonely Cat e l’influenza di Shakespeare in “Swanz The Lonely Cat’s Macbeth”
Tornare a intervistare Swanz The Lonely Cat in occasione della recente uscita del suo “Swanz The Lonely Cat’s Macbeth” è davvero un gran piacere. Per chi scrive, tanto nei suoi lavori solisti come in questo caso, quanto per quelli con i suoi Dead Cat In A Bag, ci troviamo di fronte ad un musicista (e a un compositore) di rara ispirazione, sempre in grado di affascinare l’ascoltatore con delle soluzioni stilistiche personali e di dischiudere orizzonti a sette note mai, davvero mai banali.
Se a questo aggiungete la profonda sensibilità letteraria e intellettuale che lo anima, capirete che abbiamo di fronte una figura di assoluto culto nell’ambito del cosiddetto underground italiano, dove, lontani da certe stucchevoli luci della ribalta mainstream e, soprattutto, da certo piattume compositivo e, ancor peggio, spirituale, operano dei talenti assoluti che il mondo potrebbe invidiarci (e in molti, all’estero, giustamente, già lo fanno). Speriamo che un numero più congruo di persone se ne possa presto render conto anche qua da noi.
La nostra (nuova) chiacchierata non può non partire da questa domanda: al di là del recente quattrocentesimo genetliaco del capolavoro nero del Bardo, che cosa ti ha spinto a cimentarti con il “Macbeth”? E come definiresti quello che hai creato, una “sonorizzazione”, una colonna sonora ideale?
Ricordo che abbiamo parlato in precedenza, per “Covers On My Bed, Stones In My Pillow”, il mio primo disco solista – che non assomiglia molto a questo… Ora, “Swanz The Lonely Cat’s Macbeth” nasce come colonna sonora teatrale. Ho lavorato spesso in teatro. La seconda suite mi è stata commissionata un po’ di tempo fa. Alcune parti erano suonate dal vivo. Finito lo spettacolo, mi sono detto che avrei potuto ampliarla e modificarla, svilupparla meglio, mantenendone la durata. A quel punto, ho pensato che per farne un disco avrei potuto scrivere altro materiale, così è nata la prima suite. E quella, più che una colonna sonora ideale, è qualcosa come un radiodramma.
Ho raccontato di nuovo, coi miei mezzi, la storia. Vogliamo dire sonorizzata? Non so, perché mancano le immagini. Quelle le ho poi aggiunte insieme a Plastikwombat, il mio studio di riferimento per la comunicazione visiva. Abbiamo realizzato un cortometraggio che ha partecipato agli Shakespeare Shorts, arrivando in finale. Tutto in studio, tutto allusivo. Si chiama “All Is But Toys” e già il titolo dice molto. Nel disco, ho anche recitato un poco, ma in modo che le parole si capissero poco: i monologhi sono troppo famosi e classici – e anche difficili – per una vera prova attoriale. Sono battute che tutti conoscono. Ho tentato di calarle in una trama sonora, se non prettamente musicale. Il disco non è più una colonna sonora, credo. Può diventarlo, ma per me, al momento, è un lavoro musicale ispirato a una delle mie tragedie preferite.
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La partizione in due lunghi brani a che tipo di esigenza ha risposto? Ci puoi spiegare in che modo hai concentrato i cinque atti della tragedia shakespeariana, quale tipo di linea narrativa (o emozionale) hai seguito?
A “Walking Shadow” è tutto il Macbeth. La traccia è suddivisa in più movimenti, che hanno anche un titolo, e finisce con il requiem. “A Macbeth Suite” è invece la storia del personaggio principale, vista dal suo interno, come se sulla scena tornasse il fantasma di Macbeth a spiegarci le proprie ragioni, senza usare parole, perché Shakespeare non si può parafrasare. Oppure, potremmo immaginare il brano come la musica su degli ideali e paradossali titoli di coda quasi più lunghi del film. Nella prima parte ho utilizzato molti generi e molti stili, nella seconda mi sono tenuto su un bordone e ho fatto accadere delle cose, ma l’orizzonte del tutto è sempre quel mi minore.
Si colloca fra drone music e minimalismo, in un certo senso. Ma c’è anche un po’ di folk o World music. Ho finalmente usato il duduk! Tutto porta all’accordo finale, e lì sono archi veri, non il synth un po’ “Badalementoso” (mi piace questo neologismo, al momento) che si accosta qua e là all’harmonium. E poi ci sono i suoni elettrici, più che elettronici, e un po’ di chitarra. Insomma, mi sono divertito.
Nell’ideazione del tuo progetto hai avuto modo di confrontarti con qualche predecessore che aveva tentato prima di te quella che, a tutti gli effetti, può essere definita un’impresa non da poco (si pensi a quanto fatto dai Third Ear Band nella colonna sonora della “riduzione” cinematografica di Polanski)? Anche extra-musicale, mi viene per esempio in mente la “Macbeth horror suite” di Carmelo Bene per certi “umori” che ho ravvisato nell’ascolto.
Sono opere che conosco, ma ho tentato di non ascoltarle per tutto il tempo della registrazione, che per la seconda volta mi ha visto proprio da solo. Venivo dal disco più corale dei Dead Cat In A Bag, ne avevo bisogno.
Il tuo Macbeth vive di una varietà di stili davvero ambiziosa (e ben amalgamata, per chi scrive), ma anche di una ricerca, come definirla, puramente “sonora”, rumoristica, di grande impatto. Come hai lavorato in questo senso? E quanto di quello che sentiamo è nato già in fase compositiva ovvero direttamente in studio (anche per quel che riguarda gli spoken word disseminati nei due estratti)?
Io frequento tanto gli ambienti del folk (e persino del bluegrass, essendo banjoista) che quelli del noise. A un certo punto avevo voglia di usare droni e fare anche harsh-noise, ma piano piano sono tornato verso una composizione più classica, che avesse anche dei temi. C’è molto suono, ma c’è anche melodia e un’armonia. A quel punto mi sono proprio scatenato. Ci ho messo anche una citazione da Penderecki, di cui per ora non si è accorto nessuno. In fondo, devo aggiungere, elementi di musica concreta o elettroacustica sono sempre stati presenti anche nei Dead Cat In A Bag, di fianco a mandolini e fisarmoniche. Questo disco è stata l’occasione per rendere quei suoni più evidenti.
“A walking shadow”, il primo brano che apre il disco, ha davvero un mood non incasellabile oltre che inquietante. Mi viene da chiederti che tipo di percorso hai intrapreso (strumenti alla mano, intendo) vista la varietà di stili che centrifuga. Come si compone una suite del genere, lavorando prima sulle strutture prettamente musicali e buttando dunque giù un chiaro scheletro a sette note come prima cosa o in piccole porzioni conchiuse da riassemblare in un secondo momento? E quanti strumenti utilizzi, anche solo per delle semplici linee, in questa fase?
Temo di dover rispondere banalmente a una domanda tanto complessa: ho settato il microfono e ho registrato tutto ciò che avevo sotto mano. Dallo stendibiancheria al rumore del termosifone, dai lavori stradali sotto casa (che tanto non potevo eliminare) agli strumenti che trovavo nella mia stanzetta. Persino l’odiato flauto Aulos delle medie! Poi ho messo mano all’elettronica. Ho pensato di agire come un sound-designer, anche se i miei mezzi sono limitati.
All’inizio ho lavorato per segmenti, assicurandomi di non ripetere mai lo stesso suono. Infine ho aggiunto le voci. La parte di composizione è ancora preponderante e non troppo istintiva. In qualche momento mi sono divertito a usare macchine sonore giocando coi potenziometri, ma è un approccio molto più complicato di quanto non appaia. Puoi avere il rumor bianco più potente al mondo, ma non diventerai immediatamente Merzbow. Io ho bisogno, comunque, di suonare.
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Ho avuto modo di ascoltare più volte la tua musica sia con Dead Cat In A Bag che in questo progetto solista che avevi accantonato da qualche tempo e mi è venuta una curiosità: come mai, con una voce evocativa e davvero molto particolare nel panorama italiano, non hai pensato a qualche inserto propriamente cantato? Perché non l’hai ritenuto opportuno, soprattutto in “Macbeth suite”?
Ti ringrazio molto. In effetti, all’inizio era presente una canzone, ma poi mi è sembrato che portasse troppo altrove e che per certi versi potesse snaturare l’operazione. In fondo, la voce c’è. Ed è sempre la mia. Non sono ancora pronto a un disco interamente strumentale, magari. Ora credo che tornerò alle canzoni. Sto ultimando un disco a due voci e quattro mani con Stella Burns e ho quasi pronto un altro lavoro solista, con due spoken, ma in uno la voce sarà di Peter J. Birch (che in verità è polacco) e Alain Croubalian dei Dead Brothers, che purtroppo è mancato prima di sentire il risultato finale del brano, che è in tedesco. Il resto è cantato da me.
Un’altra domanda dalla quale non riesco ad esimermi: a prescindere dall’infinita letteratura che si è sviluppata nel corso del tempo intorno all’opera del genio di Stratford-Upon-Avon, che cosa significa per te il “Macbeth”? Soprattutto, cosa ci dice in un periodo storico come quello che stiamo vivendo? E qual è il suo personaggio che, alla luce di quanto e di come è cambiata la nostra società nell’ultimo quarto di secolo, si carica di nuove valenze simboliche?
La grandezza dell’opera è quella di parlare in modo invero scomodo e disturbante dell’animo umano. Non mi va di tentare analisi politiche sull’attualità, ma mi pare di vedere tanti Macbeth al potere. Per me è bellissimo che esista una tragedia dove si fa fatica a trovare personaggi positivi (che comunque muoiono presto) e in cui tutto si intorbidisce in una violenza disperata, in una insaziabile brama di potere e di affermazione che prevarica ogni etica.
Ed è bello poter vivere i tormenti dei personaggi a volte con paradossale immedesimazione, altre con un inorridito distacco. Il tutto finisce in una dolente considerazione esistenziale e la vita stessa ne esce come tragedia insopportabile e vana. “A tale told by an idiot, full of sound and fury, signifying nothing.” Ho provato a mettere il suono e la furia (mi viene in mente anche Faulkner!); il nichilismo c’era già.
Ci parli del tuo rapporto con l’etichetta che ha licenziato questo ellepì, la Toten Schwan Records, una label italiana (se “solo” tale la vogliamo definire) di grandi vedute e di scelte sempre molto coraggiose? Come è iniziata la vostra collaborazione? E cosa ti ha convinto della loro proposta rispetto a quella di altre?
Tutto è iniziato quando ho fatto ascoltare a Vasco Viviani qualche frammento. Lui ha detto che la sua EEEE poteva essere interessata a un lavoro simile, ma ha esteso l’invito anche alla Toten Schwan, che in effetti ha una linea molto, molto coraggiosa e senza compromessi. È bellissimo che esistano realtà simili e che resista una certa libertà, che sarà pure di nicchia, ma trova il proprio pubblico. Erano i partner giusti per questo disco e mi sono trovato benissimo. Ho aggiunto poi la “mia” Love & Thunder: si tratta di un collettivo che sta nascendo in questo momento, fondato con colleghi stimati ed amici, di cui parlerò a tempo debito – cioè, auspicabilmente presto.
Chiudo con una suggestione. Ti danno carta bianca per suonare dal vivo questo disco in un luogo a tua scelta: tu quale edificio o “contesto” scegli? Che poi, ti confesso, è un escamotage per chiederti se hai mai immaginato di suonare dal vivo questa tua nuova fatica e, nel caso, di cosa avresti bisogno su un palco. Sarebbe davvero fantastico!
Sto tentando di capire come portare il disco dal vivo, ma dico sempre, ridendo, che è un po’ come tentare di riprodurre il Quartetto per archi ed elicotteri di Stockhausen senza elicotteri e con un violino solo. In questo momento, ogni suono del disco mi sembra necessario ed irrinunciabile, quindi potrei usare delle registrazioni… che però sono già tutto l’album! Un listening party (adesso pare che siano in voga)? Qualche parte recitata dal vivo? O porto un armonium, una chitarra e il banjo e provo ad usare solo qualche base? Mi piacerebbe tanto un ambiente industriale – o, diciamo almeno brutalista – ma anche un teatro. Forse non un circolo Arci, ecco. Sto valutando varie ipotesi.