Il bluesman Pierluigi Petricca presenta “Bad Days”, l’ultimo studio album
A quasi un mese dall’uscita del suo ultimo “Bad Days”, abbiamo scambiato quattro chiacchiere con il chitarrista-cantante marsicano di stanza a Roma Pierluigi Petricca. Ecco cosa ci ha raccontato.
Il disco è stato registrato a casa tua durante la pandemia. Ha un ottimo suono, molto più definito rispetto a certe produzioni at home che si è soliti ascoltare. Puoi dirci di che strumentazione ti sei servito?
Sono molto contento che dia questa impressione, innanzitutto. Tanto più che per registrarlo ho utilizzato veramente un set up molto semplice: una normalissima scheda audio e due microfoni (due condensatori). Per quanto riguarda l’editing finale, l’ho fatto servendomi di un cubase, niente di più.
Sempre rimanendo in tema: molto spesso il blues viene associato a suoni “grezzi”, poco studiati. Quant’è importante invece una buona produzione e perché, secondo te?
Bah, quella dei suoni grezzi come i suoni migliori per un disco del mio genere è davvero una leggenda da sfatare! Con la tecnologia in questi anni si sono fatti dei passi da gigante sotto ogni punto di vista e questo vale per qualsiasi tipo di musica, anche per il blues (pensiamo ai lavori di Joe Bonamassa o di qualche altro grande nome).
Non capisco quindi perché avere una definizione del suono molto curata o un sound engineering di livello debba costituire una specie di minus per un artista! Quando il risultato è ottimo (come per la maggior parte delle produzioni realizzate negli Stati Uniti), non vedo proprio dove debba essere il problema o perché ci si debba appigliare a certi inutili “purismi”, che sono solo una forma di affettazione, per quanto mi riguarda.
L’album contiene pezzi che sono stati scritti in un lungo arco temporale o sono nati proprio durante il primo periodo della pandemia? Ci dici poi se sono legati da un file rouge o meno?
Le canzoni di “Bad Days” sono state scritte tutte proprio in quell’arco di tempo. Dopo il disco “Statale 578” con Gipsy Rufina, avevo voglia di tornare al blues, sfruttando anche il periodo di pausa forzata con i live e tutto il resto.
Il fil rouge? Sì, in qualche modo c’è, e si estrinseca principalmente nel fatto che cerco di far capire come, in momenti di grande difficoltà sociale oltre che economica come quello che stiamo attraversando, a farne le spese siano principalmente i deboli. Si può dire che in ognuno dei testi che ho scritto si parli molto di questo.
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Nel (bel) booklet sono presenti alcune foto che hai scattato. Servono all’ascoltatore per capire meglio cosa vuoi dire o sono un mero complemento visivo?
Sinceramente, più la seconda. Tutto quello che volevo dire, è espresso dalla mia musica e dalle mie parole, le foto le ho inserite perché scattarne, soprattutto alla gente qualunque per strada, è una mia grande passione.
La tua specialità da strumentista è la chitarra resofonica, meglio conosciuta come dobro. Quando hai incontrato questo strumento nella tua vita e perché te ne sei innamorato?
L’amore per la resofonica è nato ascoltando certi grandi classici del blues e in particolar modo Bukka White. La prima volta che l’ho sentito, sono rimasto di sasso. Volevo assolutamente provare ad avere anche io un suono così.
Stiamo parlando grossomodo del 1990 e dintorni, un periodo storico nel quale non era per niente facile trovare questo strumento nei negozi di settore: per procurarmene uno, infatti, ho dovuto fare una lunga opera di scouting fino a quando non sono incappato in uno store specializzato di Lecce che li importava. E bisogna anche considerare che non era e non è uno strumento esattamente economico: il primo modello che ho acquistato (e che ancora conservo con cura), all’epoca, lo pagai la bellezza di tre milioni di lire, una cifra al limite del proibitivo!
Soldi ben spesi, comunque, perché sono innamorato del suono del dobro, soprattutto quando utilizzo la tecnica dello slide (una tecnica chitarristica che impiega un accessorio, il bottleneck, cioè un cilindro di metallo, vetro, plastica o ceramica largo almeno come la tastiera dello strumento, che viene fatto scivolare lungo le corde tenendolo costantemente a contatto con esse, mentre le si pizzica con l’altra mano, ndr). Le corde molto corpose aiutano ad ottenere degli effetti fantastici.
Pur nella difficoltà del periodo e nella tua condizione di indipendente, come pensi di supportare il disco? Che possibilità di live ci sono allo stato attuale per uno come te?
Non avendo una distribuzione discografica, io conto molto sulla mia fanbase, che, nonostante l’ormai prossima “morte” del disco in quanto oggetto fisico, continua ad acquistare i miei lavori. Per quanto riguarda i concerti, invece, inutile nascondersi: è un periodo durissimo, le occasioni sono davvero poche.
Molti posti dove prima si suonava con regolarità, dopo il covid non hanno più riaperto. È vero che ne sono nati degli altri, ma il saldo mi pare decisamente negativo. Bisogna darsi molto da fare per procurarsi delle esibizioni e bisogna saper sfruttare con attenzione le possibilità offerte da internet, che, in alcuni casi, aiuta a scoprire posti che prima si ignoravano. Infine, c’è la “rete” di musicisti blues, per quanto la si possa frequentare, chiaro, che offre altre possibilità. In ogni caso, ripeto, è un momento storico nero per i musicisti. Speriamo passi presto.
Sei al lavoro su progetti nuovi per il prossimo anno?
Sì, nella primavera del 2022 dovrebbe uscire un album per il quale io e i miei due compagni d’avventura d’occasione (il batterista Gianluca Giannasso e il bassista Max Pieri) abbiamo già inciso delle tracce. Sarà un lavoro diverso da “Bad days”, più rock oriented e con testi in italiano.
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