Il miracolo rock di Jon Bon Jovi: Moscow Music Peace Festival, l’atto di pace tra Stati Uniti e Unione Sovietica
Nella due giorni del 12 e 13 agosto 1989 a Mosca andò in scena uno dei concerti più entusiasmanti che l’ex Unione Sovietica ricordi, il Moscow Music Peace Festival, secondo solo – probabilmente – al leggendario Monsters Of Rock del 1991, quello dove si esibirono Ac/Dc, Metallica, The Black Crowes e Pantera. Due anni prima, però, sul palco sovietico salirono Bon Jovi, Skid Row, Motley Crue, Ozzy Osbourne, Scorpions, Cinderella e Gorky Park. Un parterre strabiliante, trasmesso anche in mondo visione. Teatro dello show fu il Lenin Stadium della capitale russa.
Organizzato dalla Make A Difference Foundation (grazie anche alla collaborazione tra i governi degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica), aveva come scopo quello di promuovere la pace e contrastare l’abuso di alcool e droghe. Erano altri tempi, altre contingenze sociali e culturali. Leggendo i nomi in cartellone, tutti sulla cresta dell’onda, sembra di raccontare un’altra epoca, eppure parliamo di poco più di trenta anni fa. Il mondo era diverso, non solamente la scena musicale. Le contraddizioni interne di un paese tanto impenetrabile dall’esterno quanto fragile e contraddittorio al suo interno facevano da sfondo a un festival capace di simboleggiare qualcosa di estremamente latente in quel periodo, la libertà. Di espressione, certamente, ma anche di essere sé stessi.
Il rock, in quegli anni, non è che fosse particolarmente amato dal Cremlino. Basti vedere quanto accadde due anni dopo al sopra citato Monsters Of Rock, investito da un clima di pura inquisizione verso quei giovani dell’est, colpevoli di voler vivere in piena libertà la stessa passione dei loro coetanei d’oltreoceano. Sigaretta in bocca, giubbino di jeans sdrucito, capelli lunghi e incolti e, per finire, t-shirt della propria band preferita: l’uniformità sovietica non prevedeva tutto questo. Come detto, erano presenti anche gli Scorpions, autori dell’inno “Wind Of Change“, brano elevato emblema della caduta del Muro di Berlino che avverrà pochi mesi dopo e che riunirà le due Germanie, a lungo divise da quel mostro di cemento.
Michail Gorbaciov, Segretario dell’Unione Sovietica, a partire dal 1985 aveva avviato una serie di riforme con lo scopo di modernizzare e migliore l’organizzazione interna dello Stato. Queste vennero identificate con la perestrojka. Il clima tra Stati Uniti e Unione Sovietica si era rasserenato dopo decenni di altissima tensione. Non stupisce, quindi, come il Moscow Music Peace Festival arrivasse in un momento storico particolare e fosse contornato da umori contrastanti. Soffiavano venti di pace, è vero, ma nessuno poteva immaginare che in quei giorni, a Mosca, fosse il rock a unire tutti, indistintamente dall’età, dal sesso, dalla provenienza geografica e dall’appartenenza sociale. Il potere della musica, il potere della pace, “the power of dream” per dirla con la sacerdotessa del rock Patti Smith che, anche se non presente all’appuntamento, aveva inaugurato questa strada molti anni prima. Presenti allo stadio? 100.000 circa.
Non tutti avevano la luna girata per il verso giusto. I Motley Crue, ad esempio, non presero bene la decisione, da parte degli organizzatori, di concedere l’headliner ai Bon Jovi. Dietro le quinte, nei backstage, vi furono dissapori che sfociarono anche nella violenza fisica. Altre manifestazioni di disappunto verso questa decisione giunsero dalle altre band presenti cartellone, in particolare da Skid Row (freschi dell’omonimo, meraviglioso, album di debutto) e Cinderella (con all’attivo due album di discreto successo) che “colpevolizzarono” i Bon Jovi di avere a disposizione più tempo per preparare uno show più suggestivo e maggiormente strutturato da un punto di vista scenico.
E fu proprio ciò che accadde. Le performance dei gruppi in scaletta furono di spessore, ma il concerto dei Bon Jovi fu semplicemente clamoroso. A iniziare dall’ingresso di Jon Bon Jovi sul palco che, dopo aver attraversato lo stadio Lenin vestito dell’uniforme militare sovietica, prese il microfono e fece esplodere una versione antemica di “Lay Your Hands on Me“. Showman puro, il nativo del New Jersey, degnamente spalleggiato da quel Ritchie Sambora, chitarrista, amico e croce e delizia degli autori di “Slippery When Wet”. Un boato accolse la band a stelle e strisce e subito furono dimenticate le vecchie ruggini tra le due superpotenze. Miracoli che il rock è in grado di fare.
Immaginate per un attimo di essere un adolescente russo, oppure un semplice spettatore di quell’evento. Provate a calarvi in quel periodo storico, dove la censura destava tutto fuorché stupore, dove il regime comunista non consentiva di vivere come realmente si voleva e dove tutto ciò – o gran parte – che simboleggiava l’Occidente era malvisto. Jon Bon Jovi, lo spezzacuori, il più belli tra i belli, tra i più talentuosi e carismatici frontman in circolazione era lì, a spezzare catene, preconcetti e divisioni, volenteroso a rafforzare il legame di chi della politica e delle stronzate analoghe se ne frega. Conta la musica. Se rock, tanto meglio.
La setlist proposta dalla band racchiudeva il meglio del repertorio scritto fino a quel momento. Da qualche mese esce uscito “New Jersey“, album che aveva consacrato i Bon Jovi come la band di punta della scena hard rock statunitense. “I’d Die For You” e “Wild in The Streets” riscaldarono ulteriormente in pubblico, ormai in estasi di fronte ai propri beniamini, ma il boato che accompagnò l’incipit di “You Give Love a Bad Name“, raggiunse vette stellari. “Blood on Blood“, poi, provoca la pelle d’oca solo nel canticchiare a mente il ritornello, figuriamoci a sentirla dal vivo lì, in quel contesto, dopo una giornata di hit sciorinate dalle migliori formazioni in circolazione. Brividi indescrivibili, fortunato chi c’era.
“Wanted Dead Or Alive” catapultò la gelida città russa, che sotto il cielo di agosto si spogliava dei suo cliché, nella polvere del Far West. La sua presentazione fu, molto semplicemente, un momento di puro teatro. Luci spente prima, leggermente soffuse poi. Il fumo, che dal palco si alzava, rendeva l’atmosfera carica di suggestioni. Ritchi Samborà sfoggiò una chitarra con tre manici, effige di tutta la sua naturale propensione all’esaltazione personale. Le percussioni di Tico Torres e le tastiere di David Bryan fecero da colonna sonora all’ingresso di Jon Bon Jovi che, ancora una volta, stupì tutti per personalità e fierezza.
La bionda chioma selvaggia lasciata cadere sul chiodo di pelle, lo sguardo magnetico a rapire la folla, la chitarra sul fianco, portata in spalla come un cowboy porterebbe il suo cinturino al ritorno da un duello, pantaloni di pelle nera e stivali a punta. Un attore, appunto, prestato alla musica.
“I’m a cowboy, on a steel horse I ride, I’m wanted dead or alive, Wanted dead or alive “
Prima della mega jam session finale, con i protagonisti di tutte le formazioni coinvolte, i Bon Jovi eseguirono “Bad Medicine” e la leggendaria “Livin’ on a Prayer“. In realtà non ci sono parole, o concetti, sufficienti per descrivere il pathos e il trasporto di questi due brani. Delirio, onnipotenza, classe infinita. Boh, fate voi.
Uno show di luci, di note, di entusiasmo contagioso e dirompente quella sera si abbatté su Mosca. Centomila spettatori accorsi da ogni angolo dell’Unione Sovietica, con gli occhi gonfi di lacrime di gioia o commozione, con l’anima resa al Dio del rock, con la voglia di vivere e sentirsi liberi, furono i veri protagonisti del Moscow Music Peace Festival, un evento unico nel suo genere. E si, Jon Bon Jovi aveva ragione:
“I walk these streets, a loaded six string on my back
I play for keeps, ‘cause I might not make it back
I been everywhere, still I’m standing tall
I’ve seen a million faces
And I’ve rocked them all“
Setlist:
Lay Your Hands On Me
I’d Die For You
Wild In the Streets
You Give Love a Bad Name
Pink Flamingos
Let It Rock
Blood On Blood
Wanted Dead Or Alive
Bad Medicine
Livin’ on a Prayer