“Il grido interiore” di Munch commuove Roma: una profonda riflessione sulle fragilità umane
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Munch. Il grido interiore, visitabile fino al 2 giugno nelle solenni sale di Palazzo Bonaparte a Roma, è senza dubbio considerato l’evento culturale dell’anno. I capolavori di Munch infatti tornano nella Capitale dopo oltre vent’anni in un quantitativo straordinario: oltre cento opere provenienti dal Munch Museum di Oslo, solitamente parco nel fare prestiti così ingenti.
Il lato più intimo di Munch
The Walk of Fame Magazine ha avuto l’opportunità di visitare la tanto attesa esposizione, varcando la soglia di Palazzo Bonaparte con la reverenza che si deve ai pionieri dell’arte contemporanea, ma anche con un legittimo interrogativo: il percorso espositivo avrebbe esaudito l’arduo compito di farci conoscere tout court la complessa personalità di Munch oppure si sarebbe focalizzato sul personaggio iconico dell’Urlo, sul tormento esistenziale, sul disagio psichico piuttosto che sull’arte rivoluzionaria del maestro?
La risposta non ha tardato ad arrivare, palesandosi con sempre maggiore convinzione man mano che si avanzava nell’iter espositivo. L’atmosfera pacata e le luci soffuse invitano ad entrare in punta di piedi nella sfera più intima di un artista che prima di tutto è stato un uomo.
Il filmato introduttivo che apre il percorso infatti oltre a fornire un sunto efficiente della vita e della carriera di Munch offre un impatto visivo ed emotivo della sua reale esistenza anche attraverso rare fotografie d’epoca.
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La malinconia dei ricordi
Grazie alla preziosa curatela di Patricia G. Berman, massima esperta della poetica munchiana, e alla collaborazione di Arthemisia, il percorso non segue un mero criterio cronologico ma si intreccia a tematiche emotive e coordinate geografiche che lo rendono più empatico e autentico all’occhio dell’osservatore.
La prima sezione dal titolo Allenare l’occhio da forma ai ricordi familiari ed affettivi dell’autore. Il quadro Malinconia raffigura Laura, sorella dell’artista affetta da disturbi psicologici, seduta in un ambiente domestico, con lo sguardo perso nel vuoto. A seguire un ritratto della stessa in tenera età e subito dopo un Ritratto della zia Karen. Karen era la sorella della madre di Munch; quando quest’ultima perse la vita a causa della tubercolosi, la donna si trasferì dai nipoti ancora bambini per prendersene cura. Nella composizione è raffigurata di profilo, in controluce, su una sedia a dondolo.
Munch inizia a sperimentare pennellate morbide e sinuose, frutto delle prime sperimentazioni con Christian Krohg. I ricordi infatti per l’artista non devono aderire all’oggettività del reale, ma sono frutto di una percezione interiore mescolata a una forte carica emotiva.
Derivano da reminiscenze anche le vedute di viale Karl Johan, la strada principale di Kristiania poco distante dalla casa natia di Edvard. A chiudere la sezione si trovano dipinti del circolo bohémien di Kristiania e il Ritratto di Stanisław Przybyszewski.
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Amore e distruzione
La seconda sezione, intitolata Quando i corpi si incontrano e si separano, sorprende con un tema poco menzionato nella carriera dell’artista norvegese: quello della sensualità, dell’attrazione e della separazione amorosa. Munch vive l’amore in senso dicotomico: da un lato senso di conforto e appagamento (si vedano dipinti quali Il bacio, Bacio vicino alla finestra, Coppie che si baciano nel parco) dall’altro forza distruttrice come nel quadro La morte di Marat.
In quest’ultima composizione Munch si autoritrae morente su un letto, in una postura simile a quella del rivoluzionario francese Jean Paul Marat; poco distante dal suo capezzale in piedi, completamente nuda la simbolica “Charlotte Corday” del pittore, colei che uccise i suoi sentimenti: l’attrice Tulla Larsen. I due vissero una passionale quanto tormentata storia d’amore che terminò in un drammatico litigio nel quale un colpo di pistola mutilò un dito dell’artista.
Sembrerebbe tuttavia che l’opera più efficace a rappresentare il significato ambivalente dell’amore secondo Munch sia Vampiro. L’intento iniziale dell’autore – come da lui stesso dichiarato – era raffigurare un uomo che posa la testa sul grembo di una donna, trovando conforto nel suo abbraccio. A poco, a poco, però come dimostrano le molteplici riproduzioni in sala, la figura femminile sembra avviluppare quella maschile nelle spire dei capelli rossi e affondare nel collo dell’uomo un ipotetico morso.
Ecco allora che l’immagine cambia improvvisamente, diventando il simbolo della sudditanza dell’uomo succube della donna predatrice. L’amore per Munch è un dolce rifugio che nel corso del tempo tuttavia può svuotare l’essere umano di ogni energia.
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Dolore e incomunicabilità
Fantasmi è l’evocativo titolo della terza sezione. Il dolore della perdita infatti trasfigura il viso, lo priva della sua linfa vitale, trasformandolo in uno spettro. Come sappiamo, dall’infanzia fino alla gioventù Munch subì la perdita di quasi tutti i suoi familiari; nell’ordine: la madre, la sorella maggiore Sophie, il padre e il fratello Peter Andreas.
Per sopravvivere a simili lutti l’artista norvegese non poté far altro che tradurre la sua angoscia sulla tela attraverso pennellate vorticose e colori intensi, pari al forte turbinio della sua disperazione. Questa sezione probabilmente è la più dura da affrontare emotivamente; lo spettatore stesso infatti diventa parte delle composizioni, vegliando insieme ai protagonisti, figure in bilico tra la vita e la morte oppure combattendo insieme a loro la malattia e il tormento. I dipinti più significativi in tal senso sono La bambina malata, La morte nella stanza della malata, Lotta contro la morte, Visione.
A spiccare in questo punto del percorso è il dipinto Disperazione, nel quale una figura umana vestita di nero è immersa nello stesso paesaggio del celebre Urlo. L’iconica opera non è presente in mostra, a causa delle precarie condizioni di trasportabilità, ma si può ammirare una litografia della stessa accompagnata da un video che ne narra la storia e i furti.
Il dolore, sembra affermare Munch, è un sentimento universale che rende tutti ugualmente spettrali eppure erige muri di incomunicabilità: ognuno è solo nella gestione della propria sofferenza.
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I viaggi e la connessione con l’invisibile
Se al primo piano di Palazzo Bonaparte abbiamo esplorato l’abisso dei tormenti umani, al secondo piano ci si immerge in aspetti più vitali e meno conosciuti della parabola munchiana, in una sorta di simbolico moto ascensionale dal buio alla luce.
La quarta sezione dal titolo Munch in Italia informa che l’artista visitò il nostro Paese per la prima volta nel 1899 e poi nuovamente nel 1900, nel 1920, nel 1922 e nel 1927. Durante i suoi soggiorni in Italia, conobbe gli stilemi del Rinascimento e in particolare rimase estasiato da Michelangelo (definì la Cappella Sistina come la “stanza più bella del mondo”) e Raffaello.
Di quest’ultimo realizzò un piccolo ritratto sul proprio taccuino, presente in allestimento, ma anche opere più strutturate quali Ponte di Rialto e La tomba di P.A. Munch a Roma che rivelano la sua ammirazione per l’Italia e il suo immenso patrimonio culturale.
Per quanto vessato da malattie, disturbi psichici e drammi esistenziali, Munch ha sempre rinnovato la sua energia vitale attraverso la profonda connessione tra materia, energia e spirito. A questi temi fa riferimento la quinta sezione del percorso espositivo denominata L’universo invisibile; attirato dalla dottrina del monismo, Edvard riteneva che la Terra fosse dotata di un proprio respiro e di una propria coscienza.
In base a tale teoria le creature agiscono le une sulle altre, consentendo alle energie invisibili (radiazioni solari, elettromagnetismo, telepatia, crescita cellulare) di condizionare il mondo tangibile. Esempi mirabili di questi principi sono le opere Uomini che fanno il bagno, Onde, Il falciatore.
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Il tempo e l’immortalità artistica
La penultima sezione, Di fronte allo specchio, (autoritratto), offre una serie di autoritratti dell’artista. Ponendosi davanti a uno specchio, Munch riusciva a guardare dentro sé stesso, ad analizzare gli abissi della sua psiche, ma anche ad attingere alle immagini dell’inconscio e della creatività.
Così l’artista si raffigura con una testa di merluzzo sul piatto, avvolto dalle fiamme dell’inferno, davanti al muro di casa o con la sua modella. Il dipinto probabilmente più significativo è L’Autoritratto tra il letto e l’orologio.
Nella composizione Edvard si ritrae in piedi tra un orologio a pendolo e un letto matrimoniale. Sul suo viso compaiono gli ineluttabili segni del tempo e le sue braccia inerti lungo il corpo sottolineano che il tempo del fervore pittorico sta giungendo al termine. Tuttavia, non sembra di scorgere nell’uomo la disperazione della gioventù bensì la consapevolezza e la pacata rassegnazione dell’ineluttabilità del tempo. Gli oggetti all’interno della composizione non a caso assumono anche un valore filosofico: l’orologio appositamente senza lancette, simboleggia Thanatos, lamorte, il sonno eterno; il letto invece equivale a Eros, l’amore, la sessualità, l’energia vitale.
Il percorso espositivo si conclude con la sezione L’Eredità di Munch ossia l’influenza che l’artista norvegese ha esercitato sulle generazioni successive, diventando di fatto l’antesignano delle Avanguardie Storiche e il padre dell’Espressionismo. Non solo attribuì prima di tutti una valenza emotiva al colore, ma fece anche ardite sperimentazioni sullo spazio della tela. Le prospettive irregolari di Munch assumono così una valenza architettonica che spingono l’osservatore a guardare oltre i confini del quadro. Esempi in tal senso sono le opere Sugli scalini della veranda, Muro di casa al chiaro di luna e Le ragazze sul ponte.
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Il maestro delle emozioni
Munch. Il grido interiore non è una semplice mostra, ma un vero e proprio viaggio nella psiche e nell’emotività umana. Ogni singola opera genera non solo ammirazione ma anche un invito a riflettere sulle molteplici sfumature della vita. La paura, il dolore, la disperazione, ma anche il viaggio, la scoperta, la sperimentazione, l’armonia con la natura, la consapevolezza, la voglia di ricominciare.
Abbiamo avuto la conferma che Edvard Munch non è semplicemente l’autore dell’Urlo, ma un uomo a tutto tondo che ha utilizzato la moltitudine delle discipline artistiche (pittura, fotografia, cinema, poesia, grafica, xilografia) per raccontare la varietà dell’esistenza. Un artista che non si è mai tirato indietro nell’esternare le proprie fragilità ma che con altrettanta tenacia ha cercato di attraversare il cuore pulsante della Terra, la forza primigenia della natura.
È proprio questo forse il senso dell’efficace titolo della retrospettiva, quasi una contrapposizione all’iconica opera del maestro; non un lamento sonoro che induce a distogliere lo sguardo ma un richiamo assertivo e silente a sondare la sfera intima del prossimo, ad accogliere ciò che non si vede, per andare oltre le apparenze e riconnettersi all’altro, come tanti piccoli tasselli di un’unica grande realtà immanente.
“NULLA È PICCOLO, NULLA È GRANDE, DENTRO DI NOI CUSTODIAMO MONDI INFINITI. IL PICCOLO È PARTE DEL GRANDE, COSI COME IL GRANDE DEL PICCOLO. IN UNA GOCCIA DI SANGUE VI È UN INTERO MONDO CON IL SUO SOLE E I SUOI PIANETI. IL MARE NON È CHE UNA GOCCIA D’ACQUA SCATURITA DA UNA PICCOLA PARTE DEL NOSTRO CORPO. DIO È IN NOI E NOI SIAMO IN DIO. LA LUCE PRIMORDIALE È OVUNQUE E ILLUMINA DOVUNQUE CI SIA VITA. TUTTO È MOVIMENTO E LUCE…”
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