Il Carnevale della Roma papalina, “una festa che il popolo offre a se stesso” (Goethe)
Abbiamo già parlato spesso del Carnevale e del suo significato. Dalle epoche più antiche siamo arrivati ai festeggiamenti più recenti, soprattutto nel Mediterraneo, con particolare attenzione alla Roma classica. Dai Saturnali ai Lupercali, nell’urbe si prestava particolare attenzione ai momenti di transizione e quale cambiamento nel corso dell’anno, è più importate del passaggio tra il freddo Inverno e la più mite Primavera?
Senza dilungarci quindi sull’importanza del periodo a ridosso dell’equinozio di Primavera per le fasi della Roma antica di cui abbiamo discusso qui e anche qui, parleremo questa volta di quello che accade dal Medioevo e del carnevale spettacolare della Roma papalina.
Con l’avvento del Cristianesimo, il periodo di quaresima si sovrappone a quello dei vecchi festeggiamenti primaverili pagani, e la Pasqua, con il sacrificio e la risurrezione di Cristo, ripropone tutto l’antico significato di rinascita della Natura. Fu deciso proprio in vista del periodo di penitenza e rinunce quaresimali, di lasciare alla popolazione alcuni giorni di svago, appunto il Carnevale, in cui si poteva dare libero sfogo ai più ferini istinti.
Nonostante i festeggiamenti non fossero garantiti ogni anno, era infatti il Papa che doveva concederli con una bolla e in occasione ad esempio della morte del pontefice o di un Giubileo venivano annullati, già dal X secolo sono documentati a Roma grandi feste per il Carnevale. Oltre alle consuete maschere, di cui parla anche Goethe nel suo “Viaggio in Italia” dove definisce il Carnevale romano “non una festa che si offre al popolo, ma una festa che il popolo offre a se stesso”, le primissime manifestazioni si svolgevano in Piazza Navona. Il luogo, che ai tempi si chiamava ancora Platea di Agone, era infatti già teatro di tauromachie, giostre di cavalieri e spettacoli venatori. A questi giochi se ne aggiunsero successivamente altri, organizzati a Testaccio, fu così che gli spettacoli del Carnevale venivano anche definiti “giochi di Agone e Testaccio”. In quest’ultimo luogo, in particolare sul Monte dei Cocci, vide la luce una delle più cruenti manifestazioni della festa romanesca, “La ruzzica de li porci”.
La corsa dei maiali o “ruzzica de li porcelli”
Su alcuni carretti venivano posizionati dei maiali vivi. I carri venivano poi spinti e lasciati rotolare giù fino alle pendici del colle dove gli spettatori si gettavano contro le bestie mezze morte e stordite in una gigantesca ressa per accaparrarsi la carne degli animali.
Quella dei maiali non era l’unica corsa che si svolgeva nei giorni del Carnevale, molte erano infatti le gare a cui dovevano partecipare per volontà o costrizione, i romani di ogni estrazione sociale e religione, insieme a uno svariato numero di animali.
La corsa dei cavalli Berberi
Nel XV secolo, diveta papa Paolo II. Veneziano di nascita aveva da poco ultimato la costruzione del suo palazzo nell’Urbe, Palazzo Venezia, nell’omonima piazza. Per questo motivo il pontefice decise di spostare il fulcro dei festeggiamenti intorno a quella che allora si chiamava via Lata, oggi via del Corso, proprio in virtù delle corse e delle gare del Carnevale. Da Piazza del popolo, che in questo periodo è ancora aperta campagna, partiva la corsa dei Berberi: i cavalli galoppavano velocissimi e senza fantino, alla fine di via del Corso venivano messi dei teli per fermali ma a dare il vero spettacolo erano i barbareschi, degli stallieri, che si misuravano in prove di forza gettandosi in mezzo ai cavalli ancora in corsa per bloccarli a mani nude.
Le altre corse di Carnevale
Oltre a quelle già citate, si svolgevano altre competizioni, sempre su via del Corso. Si sfidavano asini, bufale, bambini e giovani cristiani. Poi i vecchi con più di 60 anni, storpi, nani ed ebrei.
La corsa degli ebrei o palio dei giudei
avveniva il primo lunedì di Carnevale. I partecipanti, rigorosamente nudi, venivano fatti ingrassare col solo intento di metterli in difficoltà durante la corsa. Intorno al 1600, Clemente IX, mise al bando la barbara pratica, ma nemmeno questo portò pace alla comunità ebraica. Oltre a doversi sobbarcare della maggior parte delle spese dei festeggiamenti, viene riportato che in alcune occasioni il rabbino capo doveva comunque recarsi in campidoglio e scusarsi davanti a un Senatore per l’esistenza del suo popolo. Comunque venivano sempre costruiti carri e indossate maschere di scherno nei loro confronti. 1711 ad esempio, le cronache raccontano che nonostante le proteste ebraiche, sfilarono 100 pescivendoli vestiti da Ebrei che cavalcavano al contrario dei muli, guidati da un rabbino che teneva in una mano la coda del suo cavallo e nell’altra i rotoli della Torah.
La corsa dei moccoletti o gioco del moccoletto
L’ultima sera, i partecipanti si riversavano in strada reggendo una candela (il moccolo) accesa. Il gioco consisteva nel riuscire a spegnere la candela altrui, senza farsi spegnere la propria. Ne parla anche Dickens: “ognuno dei presenti sembra animato da un solo proposito e cioè spegnere la candeletta degli altri e mantenere accesa la propria; e tutti, uomini, donne e ragazzi, signori e signore, principi e contadini, italiani e stranieri, vociano strillano e urlano incessantemente ai vinti in aria di canzonatura: ‘Senza moccolo! Senza moccolo!”. Ecco perché, inoltre, quando siamo il terzo incomodo si dice anche che “reggiamo il moccolo”.
Nel 1874, in seguito alla morte di un giovane, ennesimo incidente durante il Carnevale romano, Vittorio Emanule II, re di un’Italia appena costituita, vieta per sempre i giochi, di cui rimane solo un lontano ricordo tra le vie del centro della città.