Parole & Suoni, I ratti della Sabina e Silone: la morale dei briganti
Passeggiando per Aielli ci si perde tra le decine di murales che caratterizzano il paesino in provincia di L’Aquila. E tra uno di questi vi si scorge il nome di Berardo Viola. Lo si può leggere nel testo di “Fontamara” che l’artista Alleg ha trascritto integralmente slla facciata di un edificio posto sotto la Torre delle stelle.
Infatti il romanzo di Ignazio Silone vede il protagonista chiamarsi proprio come il famoso brigante nato a Pescorocchiano, in provincia di Rieti, nel 1838.
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Simbolo del riscatto di quelli che lo scrittore abruzzese chiama i “cafoni”, Berardo Viola con la sua morte nel libro riaccende le coscienze dei suoi compaesani. Quei contadini, quei braccianti che condividevano lo stato di povertà, ignoranza e abbandono da parte dello Stato. La solidarietà però non trovava posto nelle loro vite. Il suo sacrificio in nome della libertà, di ideali comuni in favore dei ceti più bassi della società, lo rendono un eroe agli occhi dei “cafoni” che improvvisamente si svegliano.
Ambientato alla fine degli anni ’20 si può leggere tranquillamente un parallelismo con la situazione di un tipico paese del Sud Italia negli anni che portarono all’Unità e al seguente periodo caratterizzato dal processo di italianizzazione. Fu un qualcosa di arduo che incontrò diverse resistenze nelle aree rurali.
Da una parte l’ignoranza, la paura del forestiero, dall’altra l’incapacità di uno Stato neonato di imporsi senza l’utilizzo della forza, portarono allo sviluppo delle bande di briganti. E tra questi figurò proprio Berardino, detto Berardo, Viola.
Della sua morale, del suo essere, delle sue azioni, romanzate da Silone che prende spunto dal suo nome e dalla sua vita per un testo ambientato dopo la sua morte, cantano “I ratti della Sabina” nel brano “La morale dei briganti”.
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La canzone del gruppo folk scioltosi nel 2010 narra della storia del brigante con un noto ricco e potente della sua zona. Berardo infatti avrebbe minacciato un “padrone” con questa lettera scritta tra il 1899 e il 1900.
“Sig. Duca Grazioli:
Noi sottoscritti chiediamo la somma di L. 10.000 (dico diecimila) perché noi siamo banditi compromessi di morte, e non possiamo ritirarci, né possiamo lavorare, perché siamo bersagliati dal governo, neanche dobbiamo commettere rubbarie, e ricattare i poveri che vanno procacciandosi il pane, dobbiamo chiedere ai titolati milionisti, e loro devono farci vivere, se non vogliono ricevere dei gravi danni e dispiaceri, in più modi, senza che ve lo spieghiamo con il manoscritto”.
Era frequente in quegli anni ricevere questo tipo di lettera dai briganti.
E nella canzone de “I ratti della Sabina” a Berardo vengono fatte citare anche altre parole. Molto più filosofiche.
“Ma se ruba anche il garzone già pagato dal padrone,
sarà legge, o no, perdio, che gli rubi pure io
prima d’esser fucilato come un uomo disperato?”.
Il bandito si domandava ciò perché, come ci racconta il gruppo della Sabina, aveva visto il garzone rubare 4 sacchi di grano al padrone.
Insomma i 3 Berardo Viola, quello reale, quello di Silone e quello de I ratti della Sabina, hanno molti punti in comune. Ad esempio l’idea distorta della libertà e dell’uguaglianza.
La sua intelligenza e il suo rifiuto di abbassare la testa dinanzi l’autorità lo rendono un eroe agli occhi della povera gente, disposti ad accettare anche qualche ruberia di troppo. Un antieroe divenuto simbolo di quelli che Silone chiamò “i cafoni”.