I dispiaceri di un vero lettore
Qualche pezzo fa si rifletteva sugli artisti sensibili. Da quando i libri di ricette sono diventati essenziali per le nostre librerie, gli scrittori italiani dal cuore grande non sono più facilmente individuabili nelle vetrine, e questo impone una ricerca. Chi fosse interessato, può dare uno sguardo ai selezionati della Narrativa BPER giovani del Premio Flaiano di quest’anno. A scrivervi è un giurato popolare che ha avuto il piacere di leggere i tre romanzi in concorso nelle ultime settimane: il piacere sta nel non averli pagati.
Ora che la serata di premiazione si è conclusa, rimangono i postumi di un evento-barzelletta partito con i premi interazionali e lo splendido intervento di Javier Cercas Mena, in collegamento via Skype e prima vittima delle domande sensibili – Cosa ne pensa del Covid? Ne usciremo più buoni? -, poi consumatasi nell’arrivo delle giovani promesse: una timidona, un santone e una pseudo-pirandelliana.
La timidona è Martina Attili, che cantava “Cherofobia” a X-Factor. Chi l’avrebbe mai detto, ha scritto un libro e vorrebbe fare la sceneggiatrice. Ma l’ha scritto proprio lei? La Attili dice di sì, rispondendo alla domanda di Fabio Bacà, che era nella giuria d’onore: esordiente con Adelphi lo scorso anno, i suoi interventi erano talmente dozzinali che, nel corso della serata, mi sono chiesto quali conoscenze potesse avere per essere pubblicato da Adelphi al suo primo romanzo. La risposta è: nessuna, considerate le recensioni del suo libro.
Una botta di culo, come il protagonista del suo “Benevolenza cosmica”. Nei “Baci amari e musica d’Autore” la Attili racconta un po’ la sua storia: Sara, una ragazza che è costretta a rinunciare al suo sogno di pattinatrice sul ghiaccio, e da qui si innamora di un ragazzo che poi si rivela quello sbagliato, poi quello giusto, poi di nuovo sbagliato. Non mangia, non beve, non dorme. La Attili dice di averci messo molto di suo. Quando parla del suo romanzo usa poche parole: vogliamo credere al dono della sintesi per non dire che c’era effettivamente poco da dire sul suo romanzo, e di riflesso sulla sua vita. “Sono stata vittima di bullismo” dice “[…] Mi sono lasciata con il mio fidanzato” – prosegue – “Poi ci siamo rimessi insieme, poi gli ho messo le corna”. Tutti a ridere.
È il turno del santone. Giorgio Ghiotti – già autore, tra le altre cose, di una raccolta di poesie e giornalista culturale per Il Manifesto (esiste ancora, sì) – sale sul palco dopo l’introduzione di Bacà. È vestito con una camicia alla coreana bianca, una tunica simile a quella dei rituali del misdommar svedese, e un crocifisso a dimensioni naturali appeso al collo. Il suo libro, “Gli occhi vuoti dei santi”, è una raccolta di racconti. Una discreta raccolta, su per giù.
Belli tre racconti su dodici, anche se la sensazione generale è che sia sempre la stessa solfa raccontata in salse diverse. Temi da cattocomunismo, ma non è una sorpresa. Era bella l’idea di veder vincere una raccolta, una volta tanto. Ghiotti invece fa secondo – e ci va bene, visto che il vero successo della serata è stato il tracollo di voti della Attili –, superato da “L’Esercizio” della Petrucci.
E qui arriviamo al pirandellismo, se ci passate il termine – non vorremmo usarlo, ma che altro fare? -, e ad una delle più fortunate tra le ultime pubblicazioni de “La Nave di Teseo”. Il libro dell’appena trentenne Claudia Petrucci è vincitore al Flaiano e finalista al John Fante, sta facendo il giro d’Italia mentre l’autrice è costretta a Perth, in Australia. La storia è quella di Giorgia, una ragazza mediocre che lavora in un supermercato – e giù di riflessioni sull’alienazione e sull’omologazione –, fidanzata con Filippo, che ha abbandonato i suoi sogni per portare avanti il bar di famiglia.
Tutto piatto e lagnoso fin quando non irrompe sulla scena Mauro, vecchia conoscenza della protagonista, che tesserà le fila della coppia trasportandola da una condizione di stati a un’elaborazione più complessa delle loro coscienze. Due personaggi, un autore, o se volete l’opposto, fa lo stesso. Il romanzo della Petrucci, che vuole ricalcare le maschere pirandelliane applicandole a una storiella dalle dinamiche poco convincenti, sembra più un pretesto per cavalcare l’onda delle lotte femminili del momento – il rimando è alla recensione di “Cambio tutto” pubblicata di recente – senza spunti, senza idee se non a sostegno di una tesi un po’ bislacca di cui anche il cinema femminile vorrebbe convincerci: le donne possono apparire forti solo se affiancate da uomini-parassiti. Ovviamente ha vinto.